«Hey you, gay?» è il modo di salutarsi e richiamare l’attenzione che più spesso si sente tra i frequentatori del Parco DongDan, anche conosciuto come il Gay Park. Siamo nel cuore di Pechino, non lontano da Chongwenmen, in quello che è stato il primo posto di ritrovo per la comunità gay pechinese. Il parco non è molto grande, e l’atmosfera non è particolarmente diversa da quella di un qualsiasi parco cinese. Anziani a fare ginnastica, qualcuno che canta, venditori ambulanti che solerti guardie fanno sgomberare. Ma basta fare due passi per capire che questo in realtà non è esattamente un parco come gli altri: al suo interno si annidano storie, sofferenze, gioie, il più spesso delle volte in silenzio, a bassa voce.
Tra i tanti cambiamenti che hanno investito la Cina negli ultimi trent’anni a seguito delle riforme del 1978, quello relativo alla sessualità (e omosessualità) è tra i meno menzionati. Probabilmente perché in Cina la sfera sessuale era e resta un tabù. Eppure anche in questo campo molte cose sono cambiate. Lo scorso 14 febbraio il China Daily ha pubblicato nel suo sito foto di coppie omosessuali in abiti matrimoniali scattate sotto la Porta Qianmen, non distante dalla più famosa Tian’anmen. Foto non troppe gradite ai lettori, a giudicare dai commenti lasciati nel sito. Resta in ogni caso significativo il fatto che temi come questo inizino a trovare spazio sulla stampa, sebbene l’omosessualità non sia ancora socialmente accettata. Nel 2005 un noto settimanale cinese, il Globe, pubblicò la foto in prima pagina di due uomini cinesi con la scritta, 30 milioni, il numero stimato allora di omosessuali in Cina, così come oggi a Pechino si può partecipare senza alcun problema alle serate organizzate dal gruppo dei Queer as Folk as Beijing, impegnato anche in battaglie per la sensibilizzazione su temi sensitive, come l’Aids.
La rivoluzione sessuale cinese ha avuto ormai inizio, come sostiene la sociologa Li Yinhe, ma la strada è ancora lunga. La prostituzione resta illegale, anche se tollerata, e alcune pratiche sessuali sono ancora perseguibili per legge. I primi passi sono comunque stati fatti: nel 1997 è stata cancellata dal codice penale la parola hooligan che veniva riferita a gay sorpresi a scambiarsi effusioni in luoghi pubblici, e nel 2001 l’omosessualità è stata definitivamente eliminata dalla lista della Classificazione Cinese delle Malattie Mentali. Ora ufficialmente la politica cinese in tema di amore omosessuale è quella così detta dei tre no: nessuna approvazione, nessuna disapprovazione, nessuna promozione.
Vero dunque che negli ultimi trenta anni di cose ne sono cambiate anche in tema di sessualità ed omosessualità, nonostante un anno fa una polemica seguì alla pubblicazione di un codice di leggi di Gengis Kahn in cui venivano condannate (a morte) le abitudini omosessuali. Altrettanto vero è che se ne sa ancora poco, così come se ne sapeva poco, in Cina o all’estero, durante gli anni del Maoismo. Un articolo scritto dalla studiosa americana Emily Honig nel 2003 e titolato Socialist Sex: The Cultural Revolution Revisited, spazza via false credenze in tema di tabù sessuali: il testo è una raccolta di testimonianze volte a dimostrare come anche nei periodi di maggiore radicalità politica e di più stretta osservanza all’etica marxista e anti-borghese, come fu quello della Rivoluzione Culturale (1966-1976), sessualità ed omosessualità non fossero esattamente un tabù. O almeno non per tutti. In quegli anni infatti molti giovani e studenti delle grandi città come Pechino furono mandati nelle campagne delle lontane province centrali e meridionali a imparare dai contadini. Proprio qui però ebbero l’occasione, del tutto inaspettata, di conoscere le realtà e le abitudini di vita estremamente semplici e naturali del mondo contadino, così diverso e lontano (in tutti i sensi) dallo stretto controllo politico e morale nel quale erano cresciuti i ragazzi e le ragazze delle città.
Ed è proprio in questo ambiente rurale che i giovani studenti cinesi hanno ricevuto la prima informale ed improvvisata educazione sessuale. Numerosi furono i casi di gravidanze pre-matrimoniali, neonati abbandonati nelle campagne e fenomeni di stupro. Né il sesso fu solo di tipo eterosessuale, come documentato anche nell’autobiografia Azalea Rossa, di Min Anqi. L’autrice nel libro descrive nei minimi dettagli il rapporto con una delle sue superiori, la Comandante Yan, conosciuta nelle campagne dove era stata mandata, e più in generale il clima losco di parchi, punti di ritrovo, con il pericolo costante di essere colti in flagrante da solerti guardie. Ecco dunque sfatato il mito della purezza morale durante la Rivoluzione Culturale. D’altra parte, sebbene in quegli anni, l’omosessualità fosse considerata una degenerazione della società borghese occidentale, la letteratura classica e i dipinti ci dimostrano invece come fosse parte della cultura cinese, oltre che pratica sessuale diffusa specie in alcuni ambienti. Non c’è dunque da meravigliarsi se le storie di repressione sessuale che ci sono giunte siano solo una parte di un discorso molto più ampio e variegato.
E nel parco di DongDan non si fa neanche tempo ad entrare. Si trovano amici immediatamente. Veniamo subito affiancati da un paio di ragazzi: ci chiedono se vogliamo un ritratto e ci invitano a sedere per scambiare due chiacchiere con loro. Non ci mettono molto a dichiararsi gay, ma più che parlare dei loro gusti sembrano molto più interessati a farci domande riguardanti l’Europa. Kang (un nome fittizio) ha diciassettenne anni e viene da una città a poche ore di treno da Pechino. Ha sempre vissuto con la nonna, perché il padre se ne è andato quando era piccolo e la madre ha lasciato la casa per andare a cercare lavoro in qualche ricca metropoli del nord. Ora vive a Pechino e studia in una scuola d’arte.
Viene spesso al parco DongDan, per incontrare il suo ragazzo e starsene in un posto dove i gay sono accettati. «Qui ci sentiamo liberi. Ma in altri parchi non è così». Intorno a noi ci sono altri uomini che seguono la conversazione e ne prendono parte. Alcuni giovani, altri meno. Da come parlano dell’Europa, l’impressione è che abbiamo una concezione piuttosto idealizzata della società, specie in tema di amore omosessuale e libertà civili. «Anche noi vorremmo poterci sposare. E stare sempre insieme. Ma qui non è facile, né in famiglia né nel posto di lavoro. Certo, le cose sono migliorate negli ultimi venti anni. Ma io non voglio aspettare di diventare vecchio per essere accettato dalla società». Kang sostiene che il parco è molto conosciuto non solo tra la comunità gay cinese, ma anche tra quella internazionale. Ci alziamo per fare due passi, non distante ci sono altri uomini a fare esercizi fisici al sole della primissima primavera, qui l’eco «Hey you, gay!? Gay?» si fa più forte ed insistente.
Parlando con Kang e i suoi amici l’impressione è che la situazione nella vita di tutti i giorni per un gay che vive a Pechino non sia molto diversa da quella di chi vive a Roma. Ma Kang dice di non esser mai stato vittima di pregiudizio e si meraviglia moltissimo quando viene a conoscenza di episodi di violenza nei confronti della comunità omosessuale che vive in Europa, in Italia come in Germania o in Inghilterra. «Ma perché lo fanno, perché li picchiano?». Piacerebbe tanto anche a noi potergli dare una risposta.
[Pubblicato da Il Manifesto del 14 aprile 2009][Foto di Matteo Lanetta]