Letture asiatiche – L’identità non univoca di Taiwan

In Cultura, Letture Asiatiche by Lorenzo Lamperti

Recensione di “Nostalgia dei miei fratelli dei villaggi militari”, una raccolta di racconti di Zhu Tianxin, tra le autrici principali della letteratura taiwanese dei villaggi di guarnigione

Si lasciò andare sul pavimento, pentito d’aver aperto lo scrigno prezioso che il tempo gli aveva donato, si sentiva un cretino ad aver riempito quelle lettere di tante sciocchezze, e provò una tremenda vergogna. All’improvviso innumerevoli lettere aperte e chiuse si agitarono in un vortice di fumo bianco che si dissolse nell’aria. Non aveva bisogno di uno specchio o di guardarsi, sapeva d’essere diventato un vecchio dai capelli bianchi. Così, come quella volta da piccolo, dopo aver ascoltato la storia al buio prima di accendere la luce, scoppiò in un pianto dirotto“.

Il tempo. Lo spazio. L’intreccio tra l’uno e l’altro e quello snodo in cui si prova a capire chi siamo e qual è il significato della nostra esistenza. Un significato talvolta sfuggente. A compiere quella ricerca, talvolta in maniera attiva e talvolta in maniera più passiva e ormai rassegnata, sono le “anime vecchie”. Così le definisce Luca Pisano nella postfazione di Nostalgia dei miei fratelli dei villaggi militari, raccolta di racconti di Zhu Tianxin pubblicata da Orientalia Editrice nella collana “Sinestesie” diretta da Rosa Lombardi. Le “anime vecchie” sono quelle alla vana ricerca di un senso di appartenenza e di una patria da poter chiamare in tal modo senza indugi. Sia essa una terra e un luogo fisico o un luogo interiore.

Non ce la fa Li Jiazheng, protagonista del racconto Molto, molto tempo fa c’era un Urashima Tarō, titolo che richiama a una leggenda giapponese ma che racconta la vicenda di un uomo rimasto prigioniero per 30 anni durante l’epoca del “terrore bianco”, quella della legge marziale imposta dal Guomindang di Chiang Kai-shek a Taiwan fino al 1987. Tornato in libertà è un anziano totalmente distaccato dalla realtà in cui si ritrova a vivere, o meglio vagare. Non ce la fanno le “donne-canguro” che si cancellano per vivere solo in funzione della famiglia, annullando la propria identità. “È certo, tua madre in quell’occasione morì una volta. Se ci pensi attentamente o hai buona memoria, ti ritorneranno pian piano in mente alcune circostanze in cui tua madre concepì l’idea di morire“.

Zhu è una waishengren di seconda generazione, cioè la figlia di un cinese continentale giunto a Taiwan insieme al Guomindang tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta nella guerra civile col Partito comunista cinese di Mao Zedong nel 1949. Si parla di due milioni di persone su una popolazione totale di poco più di cinque milioni. Buona parte di quei due milioni di persone hanno vissuto più o meno a lungo nei cosiddetti juancun, i villaggi dei familiari dei militari che sorgevano quasi sempre al fianco di campi militari. Assembramento di case, tende e sistemazioni teoricamente provvisorie. Corpi inizialmente estranei all’ecosistema taiwanese. Come Taiwan doveva essere la casa temporanea del Guomindang, quei villaggi dovevano essere la loro casa temporanea. Anche dopo decenni, regno del provvisorio.

I racconti di Zhu sono uno degli esempi più fulgidi di quella letteratura dei villaggi di guarnigione di cui si parlava anche nel volume di saggistica Voci da Taiwan. Nel racconto che apre il volume di Orientalia, un passaggio in particolare lascia intendere la multiculturalità continentale presente in questi villaggi: “A-Ting, uno del Jiangxi, erano molto più speziati di quelli del sichuanese Peipei; quelli fragorosi dei bambini della famiglia Wang del Zhejiang sapevano sempre di formaggio di soia fermentato e di pesce in salamoia; quelli della cantonese Yaya e dei suoi fratelli avevano l’odore acido del congee, chissà perché non lo chiamavano pappa di riso ma congee, e gli ‘agrumi del Guangdong’, di cui andavano pazzi, erano semplici arance. Per non parlare del puzzo di aglio e condimenti vari che avevano i rutti dei bambini delle famiglie Zhang e Mo dello Shandong. La mamma di Pechino dei Sun preparava con la farina ogni sorta di dolcetti e i suoi bambini bighellonavano per strada con quelle delizie in mano il cui odore faceva impazzire“.

Oggi la maggior parte di questi villaggi non esiste più. Via via col passare del tempo le distanze tra waishengren e benshengren (nativi taiwanesi di etnia han, discendenti delle ondate migratorie continentali precedenti alla colonizzazione giapponese) si sono assottigliate e le tensioni intraetniche diluite. Di quei luoghi restano alcune vestigia disseminati per l’isola, ma il loro ruolo non è più quello di un tempo. Soprattutto, quel sentimento identitario di difficile catalogazione come quello ben descritto da Zhu è a rischio estinzione, come conclude lei stessa amaramente il primo racconto. “Non derido chi arriva al punto di pubblicare annunci per ritrovare i compagni d’infanzia, oppure organizza un partito degli abitanti dei villaggi militari. Questo perché non accettate che le uniche sporadiche notizie su di loro si trovino nelle pagine di cronaca, dove li riconoscete a colpo d’occhio anche da poche informazioni”.

Zhu rievoca il rapporto sfaccettato e disilluso nei confronti del Guomindang, ricorda di aver votato già da adulta per un altro partito dopo la fine della legge marziale, ma rifiuta l’assimilazione. Qualsiasi. “Non tolleravi d’essere considerata una privilegiata e non accettavi di essere assimilata quasi per consanguineità al Partito Nazionalista solo perché tuo padre era continentale” scrive nel racconto. “Ciò che io rivendico è la libertà di non venire etichettata; mentre tutti plaudono all’assimilazione, noi vogliamo essere liberi di non esserne parte“, dice invece in un’intervista citata nella postfazione, in riferimento alla retorica storico-identitaria divenuta maggioritaria col passare del tempo a Taiwan. Ricordando che non esiste solo un modo di definire o vivere un luogo, provando a trovare per la sua storia e la sua memoria un tempo e uno spazio.

Di Lorenzo Lamperti

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