L’era delle guerre valutarie

In by Simone

(In collaborazione con AGICHINA24)
Non faranno rumore come le cannonate, ma le svalutazioni competitive sembrano ormai un’arma a tutti gli effetti: e allora benvenuti nell’era della guerra delle valute, un conflitto a tutto campo sul terreno delle economie globali dove Cina, USA, Ue, Giappone e nazioni emergenti hanno tutti una posizione da difendere o dalla quale contrattaccare, e in cui gli schieramenti sono tutt’altro che definiti. Quando è scoppiata? Chi l’ha dichiarata? In realtà, non c’è neppure un accordo sulla terminologia; ma per un Dominique Strauss Kahn che all’apertura dell’ultimo vertice FMI a Washington dichiara di averla utilizzata impropriamente (pur reputando “molto grave il rischio di conflitti valutari”) c’è sempre un ministro delle Finanze brasiliano come Guido Mantega, che dichiara senza mezzi termini che la guerra dei tassi è già qui, la si sta combattendo, e l’economia carioca è già stata colpita. Meglio dunque mettere i fatti in fila uno dopo l’altro: da tempo USA e Ue esercitano crescenti pressioni sulla Cina per convincerla ad accelerare il processo di rivalutazione dello yuan.

 

A partire dal luglio 2008 -mentre la crisi dei mutui subprime emergeva in tutta la sua gravità- Pechino ha ancorato la sua moneta al dollaro, un vincolo lievemente modificato solo nel giugno scorso, quando People’s Bank of China ha acconsentito ad un modesto apprezzamento. Ma nonostante negli ultimi mesi lo yuan renmimbi si sia rivalutato di circa il 2% e abbia toccato nuovi record sul biglietto verde, secondo gli Stati Uniti questa modifica del tasso di cambio è irrilevante: è l’opinione, ad esempio, di quel gruppo di parlamentari bipartisan della Camera dei Rappresentanti di Washington che qualche settimana fa hanno approvato una norma che autorizzerebbe gli USA -e bisogna vedere quanto questo sia in linea coi regolamenti WTO- ad applicare tariffe sull’import da quei paesi che manipolano la propria valuta. Per i congressmen americani, pressati dalle elezioni di midterm e dalla crescente disoccupazione, lo yuan viene scambiato ad una cifra tra il 25% e il 40% inferiore al suo valore effettivo, garantendo così al Dragone un vantaggio sleale nei suoi commerci con l’estero.

 

E Pechino? La posizione tenuta davanti alle spinte di Washington e, con toni più lievi, di Bruxelles, è quella riassunta nelle ultime dichiarazioni del premier Wen Jiabao: non possiamo acconsentire ad una rivalutazione repentina perché danneggerebbe i nostri produttori, provocherebbe chiusure a catena negli stabilimenti con licenziamenti e gravi ripercussioni sociali e causerebbe anche l’afflusso di capitali speculativi dall’estero capaci di compromettere la crescita economica. Ma la Cina non è sola sulla strada delle svalutazioni competitive: nelle ultime settimane il Giappone è intervenuto diverse volte, per la prima volta in sei anni, per frenare la forsennata fuga al rialzo dello yen, seguito a breve distanza da Corea del Sud e Brasile, mentre misure indirette sul tasso di cambio sono state adottate anche da Thailandia, Singapore, India, Taiwan e Svizzera, tutti impegnati ad abbassare il valore delle loro monete per non rimanere al palo nella corsa all’export.

Come in una scena alla Sergio Leone, in cui al duello partecipano più di due contendenti e ognuno punta la propria arma su più avversari, così i paesi riuniti a Washington all’ultimo vertice del Fondo Monetario Internazionale non sono riusciti a trovare nessun accordo su una regolamentazione per fissare i tassi di cambio, e hanno rimandato tutto al prossimo G20 che si terrà a Seoul l’11 e 12 novembre. Nonostante la complicata tela di negoziazioni con Pechino che sta tessendo il prossimo presidente del summit, Nicolas Sarkozy, le posizioni appaiono complesse: esistono degli schieramenti? Qual è la posta in gioco? “Non si può parlare di fronti comuni, perché  la politica valutaria è qualcosa di molto legato alla politica di un singolo stato” spiega ad AgiChina24 Giacomo Goldkorn Cimetta, docente di Geopolitica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore della rivista online Equilibri.net. “Cina, India e Brasile in definitiva non hanno molto in comune; anzi, in molti casi si sovrappongono, quindi potrebbero avere interessi diversi nell’adottare una politica monetaria simile. Il Giappone, è chiaro, si vuole difendere da uno yen mai così forte sul dollaro negli ultimi 15 anni.

 

Ma queste economie non potranno sostenere tali misure per sempre: si tratta, è vero, di un sostegno alle esportazioni; ma i paesi occidentali ricchi che comprano poi potrebbero anche  stabilire delle contromisure, come ad esempio non comprare più il debito di quei paesi, diminuire gli investimenti esteri, o, per quanto difficile da attuare, ridurre il trasferimento di tecnologie. Estremamente complessa da attuare, viste le regole WTO, mi sembra invece la minaccia USA sui dazi”. Anche per Jean-Marc Daniel, professore di Economia alla ESCP Europe ed esperto di nazioni emergenti, il fronte caldo del conflitto in questo momento si trova in Asia, pur avendo effetti globali: “Il Giappone, in effetti, sta  cercando di difendersi, e anche se paesi come la Thailandia adottano misure simili, le nazioni che sono veramente concorrenti tra loro sono Vietnam, Indonesia, Malesia e Cina, in quanto dotate di una struttura simile. Questi paesi combattono tra loro una guerra sui mercati, che adesso in alcuni casi è già una guerra monetaria che non ha raggiunto proporzioni mondiali.

Ma solo per il momento”. Secondo Goldkorn, inoltre, il Dragone potrebbe avere obiettivi differenti da quelli degli altri: “Se Brasile e India vogliono aumentare l’export attraverso svalutazioni competitive perché anche loro hanno vissuto la crisi, la Cina magari ha obiettivi diversi. Forse vuole sedersi a un tavolo di trattativa con gli USA in una posizione più forte. Il punto è  che Pechino davanti a Washington costituisce veramente un capitolo a parte, perché tra i due non ci sono solo politica fiscale e monetaria, ma anche problemi come le influenze geostrategiche nel Sudest asiatico e in Asia Centrale, oppure la questione di internet; la ‘Guerra di Google’ che abbiamo dimenticato, ma invece si sta combattendo ancora”.

Ragionando geostrategicamente, Goldkorn apre nuovi scenari: che cosa potrebbero volere Cina e USA da un ipotetico tavolo delle trattative, a tempesta valutaria passata? “Dipende da che cosa vuole la politica in quel momento. Adesso, ad esempio, gli USA potrebbero volere una formalizzazione del G2: l’America è interessata a formalizzare delle procedure di trattativa a due con la Cina che, partendo dal problema della moneta, si possano poi allargare ad altre questioni. Il cuore dunque, non consiste in un automatico e immediato innalzamento del livello del renmimbi; magari gli USA vogliono costringere la Cina a incontri regolari che le impediscano di fare di testa sua.

O forse, altra chiave di lettura, ai cinesi tutto ciò interessa in quanto significherebbe una consacrazione definitiva come superpotenza, che magari sono gli USA a non voler  concedere”. “In definitiva, non vedo una Nuova Guerra Fredda, perché qui la situazione è diversa: allora le trattative, come le guerre, avvenivano per conto terzi, ma era tutto tenuto segreto perché le ideologie di entrambi gli schieramenti non consentivano di mostrare al grande pubblico che si cooperava tra USA e Unione Sovietica. Oggi gli attori sul piano finanziario sono almeno tre, perché c’è l’Unione europea, e forse quattro, contando anche il Giappone. Tutto è alla luce del sole, o quasi.

La pubblicistica si interroga, ci sono conferenze, vertici,si discute, si parla. E se si vuole guerreggiare si usano metodi diversi, magari immettendo sul mercato un software per gli smartphone che costa un  decimo di quello prodotto dal tuo contendente ed è anche più moderno”. Anche Jean Marc-Daniel vede una strana partnership all’orizzonte: “Si potrebbe profilare, a conflitto finito, un’alleanza conflittuale tra Cina e Stati Uniti, cioè tra il primo produttore di beni e il primo consumatore, che tuttavia è ancora la prima economia mondiale.

 

Se insieme trovassero un accordo, il G2 potrebbe costituire un primo blocco, in uno scenario nel quale la posizione più delicata tocca al Giappone, visti i cattivi rapporti con la Cina e la nuova complessità della relazione con gli USA. Inoltre non va dimenticato che anche il dollaro è ai minimi storici, e l’Europa si trova in una posizione intermedia, dalla quale forse potrebbe trarre qualche vantaggio. Ad esempio, le trattative di Sarkozy con la Cina sembrano volte da un lato a stabilizzare la situazione dei tassi, ma dall’altro anche a contenere in qualche modo gli Stati Uniti. Infine non si possono dimenticare né l’Arabia Saudita né la Russia, in quanto produttori di petrolio di cui tutto il mondo ha bisogno”. Quello che andrà in scena al G20 di Seoul, dopo le fervide trattative sotterranee di queste settimane, potrebbe insomma essere l’inizio di uno scenario inedito. Ma intanto il duello a più contendenti prosegue, almeno per ora. 

Puntata di approfondimento su Radio Radicale in collaborazione con AgiChina24 (In collegamento telefonico Antonio Talia da Pechino, in studio Valeria Manieri (Radio Radicale) e Alessandra Spalletta (AgiChina24).