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Le mosse di Xi sulla via della “riunificazione” di Taiwan

In Cina, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Quali nuovi strumenti per Pechino? Dopo quasi 9 mesi di silenzio, la Procura Suprema del Popolo di Pechino ha comunicato l’incriminazione di Yang Chih-yuan. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sull’indipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito Nazionalista di Taiwan

Non ci sono solo le armi militari. Xi Jinping mira a fare passi avanti sulla strada della “riunificazione” di Taiwan anche attraverso degli strumenti normativi, che spesso hanno un impatto anche maggiore su chi vive sull’altra sponda dello Stretto. Una vicenda delle ultime settimane chiarisce molto bene questo aspetto. Si tratta della storia di Yang Chih-yuan, il primo cittadino taiwanese a processo per separatismo in Repubblica Popolare Cinese. Yang è un attivista di 33 anni arrestato lo scorso agosto a Wenzhou subito dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Allora era apparsa una chiara ritorsione all’incontro dei giorni precedenti fra l’allora speaker del Congresso degli Stati Uniti e Lee Ming-che, altro attivista taiwanese che aveva passato qualche anno nelle carceri continentali prima di fare il suo ritorno proprio l’anno scorso a Taiwan.

Dopo quasi 9 mesi di silenzio, la Procura Suprema del Popolo di Pechino ha comunicato l’incriminazione di Yang. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sull’indipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito Nazionalista di Taiwan, una forza minore ma più radicale del Partito Progressista Democratico (DPP) della presidente Tsai Ing-wen, attualmente al potere. Il Partito Nazionalista di Taiwan persegue una dichiarazione di indipendenza formale e l’adesione di Taipei alle Nazioni Unite. Prospettive inaccettabili per Pechino, che richiede alle forze politiche taiwanesi il riconoscimento del “consenso del 1992”, un accordo tra i funzionari del Partito comunista e il Kuomintang (KMT, allora al potere e oggi all’opposizione) in cui si riconosceva l’esistenza di una “unica Cina”, pur con “diverse interpretazioni”. A lungo fondamento della posizione intrastretto del KMT, diventato poi un retaggio scomodo negli ultimi anni e in particolare dopo il prepensionamento del modello “un paese, due sistemi” di Hong Kong, respinto sia dal DPP che dal KMT.

Le attività per cui Yang è stato incriminato sono state svolte oltre un decennio fa a Taiwan, ma che ora possono costare al 33enne da 10 anni all’ergastolo. O persino una condanna a morte, se i giudici sentenzieranno che ha causato danni particolarmente gravi alla sovranità nazionale cinese.

Le accuse a Yang mostrano la volontà di Pechino di dare una base legale alla sua pretesa di sovranità su Taiwan. E si accompagnano a mosse come l’inserimento di figure politiche in una lista nera di secessionisti, nel tentativo di recidere i legami tra il partito di maggioranza e il mondo imprenditoriale taiwanese che fa affari in Cina. Sintomatica la vicenda in tal senso di Far Eastern Group, uno dei più grandi conglomerati taiwanesi attivi in Cina. Dopo le sanzioni economiche e la minaccia di esproprio dei terreni alle aziende taiwanesi “colluse” con figure indipendentiste, il patron Douglas Hsu si è esposto pubblicamente dicendosi contrario all’indipendenza taiwanese per continuare a fare affari dall’altra parte dello Stretto. Anche per questo l’inserimento di figure politiche taiwanesi in questa lista non è un mero esercizio simbolico. Chiaro che le conseguenze dirette sulle persone in questione ci sono solo qualora queste si rechino in Cina continentale. Ma a livello politico l’inserimento nella blacklist può essere un importante ostacolo sulla strada di una candidatura. Di recente, è stata “sanzionata” Hsiao Bi-khim, rappresentante di Taipei negli Stati Uniti e spesso considerata una papabile candidata per il DPP nel futuro più o meno prossimo.

Nelle scorse settimane, un editore di libri con sede a Taiwan è stato messo sotto inchiesta in Cina con il sospetto di “mettere in pericolo la sicurezza nazionale”. Li Yanhe, meglio conosciuto con il suo pseudonimo Fu Cha, sarebbe stato trattenuto dalla polizia a Shanghai già da marzo, poco dopo essere arrivato per visitare la sua famiglia e affrontare questioni legate alla residenza, secondo quanto riportato dalla Central News Agency taiwanese. Settimane dopo la sua detenzione, un portavoce dell’Ufficio cinese per gli Affari di Taiwan ha confermato che Li è indagato dalle autorità di sicurezza dello Stato. Le pubblicazioni della casa editrice Gūsa coprono una varietà di argomenti, ma i suoi contenuti sulla Cina sono per lo più critici nei confronti del Partito Comunista Cinese o contengono informazioni che il partito troverebbe imbarazzanti. A Taiwan ci sono pressioni sul settore culturale e l’industria editoriale per esprimersi sulla vicenda. Per ora senza grande successo, a testimonianza della delicatezza del tema e dei legami che esistono tra gli editori delle due sponde dello Stretto. Era successo qualcosa di simile a inizio 2022, quando lo storico e politologo Wu Rwei-ren fu accusato per la legge di sicurezza nazionale a causa di un articolo pubblicato a Hong Kong. L’Academia Sinica, il suo istituto accademico, emanò una dichiarazione molto netta a difesa della libertà di espressione. E nell’ultimo paragrafo si chiedeva a tutte le istituzioni accademiche taiwanesi di aggregarsi e firmare pubblicamente quel documento. Senza a lungo ricevere alcuna risposta. “Università e accademie hanno diversi progetti di cooperazione con istituti cinesi, in molti ricevono dei fondi: è difficile che prendano una posizione pubblica che possa mettere a rischio i loro rapporti”, aveva spiegato all’epoca Wu.

Sulla strada delle elezioni presidenziali taiwanesi del 2024, Pechino affila non solo l’arsenale militare ma anche quello normativo. Il tentativo è duplice: da una parte “regionalizzare” la questione, per esempio ampliando le pretese di sovranità sulle acque intorno a Taiwan, dall’altro recidere i legami tra mondo economico-culturale e le forze politiche meno dialoganti con Pechino. Sullo sfondo, resta l’ipotesi di una futura revisione della legge anti secessione. Varata nel 2005 in risposta alle prime riforme costituzionali di Taipei durante la presidenza di Chen Shui-bian (primo leader del DPP poi finito in carcere per corruzione), prevede un’azione militare qualora Taiwan dichiarasse indipendenza formale come Repubblica di Taiwan, superando quella de facto come Repubblica di Cina. La legge prende di mira le forze definite “secessioniste”. Da almeno marzo 2022, alcune voci continentali ritengono che sia necessario un ampliamento della legge arrivando a colpire idealmente non solo chi si adopera alla “secessione” ma a tutti coloro che non sono a favore della “riunificazione”. È un cambiamento di paradigma che può sembrare sottile ma non lo è, con ripercussioni anche sulla vita dei tanti taiwanesi che ancora risiedono in Cina continentale.

Di Lorenzo Lamperti