La storia di Luo, raccontata la scorsa settimana sul South China Morning Post, è una storia di ordinaria amministrazione della provincia cinese. Quando a metà 2009 si manifestarono i primi segnali di avvelenamento da metallo di massa, causati da una fabbrica nei pressi del villaggio, oltre un migliaio di cittadini di Shuangqiao si riversarono infuriati davanti alle porte del governo di Zhentou, il maggiore centro della zona, costringendo di fatto le autorità locali ad occuparsi del caso.
Al verdetto di colpevolezza per il proprietario della fabbrica, che con migliaia di avvelenati e 20 morti sulla coscienza scontò appena qualche giorno di carcere, come spesso succede non seguirono giuste compensazioni per il danno ricevuto, così la signora Luo decise di fare della ricerca di giustizia la sua ragione di vita, contro il parere di figlio e marito.
“E’ una questione che riguarda tutti noi – ha dichiarato la signora Luo al SCMP – se tutti rimangono in silenzio davanti alla nostra sofferenza, aspettando che qualcuno prenda in mano la situazione, possiamo anche semplicemente aspettare di morire”. Appellandosi prima alle autorità dello Hunan, poi al governo centrale di Pechino, mentre la polizia della vicina Liuyang cercava insistentemente una scusa per arrestarla definitivamente, riuscendo soltanto a chiuderla in cella per 10 giorni all’inizio del 2011 accusandola di incitazione a petizioni di massa, la signora Luo diventava ben presto l’eroina del villaggio, battendosi per la sua comunità quando chi occupa gli uffici contrassegnati da “wei renmin fuwu” faceva di tutto per insabbiare.
E forse ricevere un giusto risarcimento non sarà più solo una speranza. Il fenomeno dei petitioner non è certo una novità, in molti hanno fatto una brutta fine tra apparenti incidenti mortali e reclusioni illegali da parte dei chengguan, la polizia locale assoldata dalle autorità per ‘fare il lavoro sporco’. Ma come l’episodio del bombarolo di Fuzhou e la rivolta in corso in Inner Mongolia, i petitioner hanno caratteristiche peculiari che a ragione preoccupano moltissimo le alte sfere di Zhongnanhai: sono sfoghi che provengono non dall’élite intellettuale occidentalizzata, facilmente disinnescabile accusandola di connivenza con lo spauracchio straniero, ma dalla base proletaria del tessuto sociale cinese. Lontano dai giornali occidentali, dalle presunte rivolte di Twitter e dai centri più aperti al mondo, c’è una provincia cinese esasperata da condizioni di vita estreme, assenza di giustizia e senso di sfruttamento, schiacciati nella corsa al denaro ed al potere dei vari signorotti locali.
Davanti ai primi fischi della pentola a pressione sociale, lo scorso gennaio Wen Jiabao aveva dato un segnale forte e chiaro, visitando l’ufficio petizioni di Pechino proprio pochi giorni prima dell’apertura delle Due Assemblee, l’appuntamento politico più importante dell’anno: in quell’occasione nonno Wen incoraggiò la popolazione a criticare il governo, insistendo sul motto del “wei renmin fuwu” per i quadri locali del partito. L’appello del premier cinese è evidentemente rimasto inascoltato e chi rappresenta il Potere nelle regioni più povere e remote della Repubblica Popolare, al sicuro da punizioni esemplari grazie ad un controllo serrato sulle informazioni in uscita dalla sua area di competenza, continua a servire non il popolo ma il Renminbi, come nella versione moderna del motto maoista: “wei renminbi fuwu”.
A 22 anni dai tragici fatti di Tian’anmen del 4 giugno 1989, se Fuzhou, Inner Mongolia epetitioner siano i primi segni di cedimento di un sistema di potere che rischia di divenire vacillante, fiaccato dall’inefficienza dei suoi rappresentanti locali e da un’oppressione che spesso appare controproducente, è ancora presto per dirlo: è certo però che in Cina qualcosa si sta muovendo, non più solo lungo i cavi di internet.
[Pubblicato su AGICHINA24 il 3 giugno 2011]