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L’attivismo politico, secondo le nuove generazioni cinesi

In Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Chi oggi abbraccia battaglie sociali in Cina non lo fa necessariamente per motivi ideologici, ma più semplicemente per un senso di giustizia. “Ciò che rende incredibile le proteste anti-Zero Covid è la loro spontaneità”. Il Gongmin Ribao racconta chi sono gli attivisti cinesi di nuova generazione 

“Voi stranieri siete sempre molto sorpresi quando scoppia una rivolta in Cina, o se alcuni giovani pubblicano commenti contro il partito comunista. Ma per favore non siatelo! Siamo sempre esistiti, solo che non è mai stata una nostra priorità andare contro il governo”. A parlare è l’amministratore dell’account Instagram di Gongmin Ribao (Citizens Daily), gruppo da anni impegnato ad amplificare sul web le varie forme di dissenso comparse in Cina, soprattutto in risposta alla ferrea politica Zero Covid. Tra le ultime campagne supportate dalla piattaforma figura il rilascio di Kamile Wayit, la diciannovenne uigura condannata a marzo con l’accusa di “incitamento al terrorismo” per aver postato su WeChat un video delle “proteste dei fogli bianchi”, le dimostrazioni che lo scorso inverno hanno spinto il governo a rimuovere definitivamente le restrizioni sanitarie. “Anche gli stessi funzionari del partito conoscono molto bene la sfiducia dei cittadini. Sono persone reali e le persone reali hanno empatia”, commenta il ragazzo contattato da Gariwo.

Può sembrare strano ma, nonostante il controllo serrato su organi di informazione e social network, la Cina di Xi Jinping comincia a mostrare il fianco. Non si tratta più solo – come nei primi anni Duemila – di proteste localizzate contro espropri forzati e la costruzione di fabbriche inquinanti dietro casa. Sono sempre di più le persone – soprattutto i giovani – ad avvertire la necessità di combattere le ingiustizie sociali per un dovere morale, per il bene del prossimo. D’altrocanto, il 2022 è stato un anno particolare: le misure anti-Covid, la disoccupazione giovanile alle stelle, le proteste nella fabbrica della Foxconn e alcuni fatti di cronaca (come il caso della donna disabile tenuta in catene dal marito), hanno spinto la popolazione a prendere posizioni più esplicitamente critiche nei confronti del sistema. In alcuni casi anche della leadership comunista impersonificata da Xi.  

Come nel resto del mondo, le ultime generazioni sono risultate le più inclini alla mobilitazione sociale. Ha inciso la diffusione di smartphone e piattaforme digitali, ma non solo. Se in Occidente è stata la crisi finanziaria del 2008 a sgretolare le certezze sul futuro, i giovani cinesi cresciuti nel boom economico dei primi anni Dieci, si trovano oggi a fare i conti con un contesto professionale incerto a fronte di un costo della vita cresciuto a dismisura in pochi anni. E se alle nostre latitudini prevale il disincanto nei confronti della democrazia, oltre la Muraglia la gestione della pandemia e dell’economia hanno portato allo scoperto la fallibilità del Partito-Stato che in assenza di elezioni dirette da sempre trae la propria legittimità politica dall’efficienza. Oggi quel ruolo paternalistico di “problem solver”, rivendicato con maggiore enfasi da Xi, scricchiola davanti ai grandi problemi sociali: l’aumento delle disuguaglianze reddituali è anche il prodotto di politiche economiche che privilegiano le entrate statali sulla redistribuzione delle ricchezze. 

È in questo contesto che si è formato un ecosistema di “attivisti accidentali”: non dissidenti di lungo corso, bensì giovani senza esperienza pregressa nell’advocacy che si sono avvicinati alla società civile casualmente per far fronte ai problemi incontrati nella quotidianità o incoraggiati dalla mobilitazione altrui. Caso esemplare sono le “proteste dei fogli A4” che hanno trascinato in strada migliaia di persone in tutto il Paese. L’inusuale manifestazione di dissenso ha visto per protagonisti cosiddetti “semi-attivisti”: ventenni particolarmente sensibili ambientalismo, uguaglianza di genere, rapporti famigliari. Ovvero questioni non completamente bandite e che intercettano persino alcuni obiettivi del governo come la lotta al cambiamento climatico, più diritti per le donne, e l’introduzione di nuove forme di welfare per sgravare le nuove generazioni degli obblighi di assistenza sociali verso gli anziani. 

Come si apprende dal sito Yibao, molti dei dimostranti portati via dalla polizia (un centinaio in tutto) sono ventenni abbienti e con un buon livello di istruzione. Ad accomunarli la passione per i circoli letterari, le sale di proiezione, locali con musica dal vivo e tutti quegli spazi “sommersi” di dibattito culturale e sociale che hanno caratterizzato le metropoli cinesi fino a una decina di anni fa. Ma che stanno scomparendo alla velocità della luce nel nome del decoro urbano e della stretta ideologica lanciata dal governo per reprimere la diffusione di correnti di pensiero eterodosse. Specie se ispirate ai valori occidentali. 

Come nel caso dei manifestanti dei “fogli A4”, chi oggi abbraccia battaglie sociali in Cina non lo fa necessariamente per motivi ideologici, ma più semplicemente per un senso di giustizia. “Ciò che rende incredibile le proteste anti-Zero Covid è la loro spontaneità”, ci spiega l’amministratore di Gongmin Ribao, “molti di noi condividono emozioni umane simili davanti alle tragedie”. Questo approccio è riscontrabile un po’ in tutte le più recenti esternazioni di malcontento giovanile, online e offline: il minimo comune denominatore è la decentralizzazione delle rimostranze e la mancanza di un’agenda precisa. “Non abbiamo un programma chiaro o un obiettivo preciso, non sappiamo cosa vogliamo cambiare o cosa vogliamo ottenere”, aggiunge il ragazzo. 

Si tratta di un modo estremamente diverso di avvicinarsi all’attivismo rispetto al “Weiquan”, la rete assistenziale creata dai cosiddetti “avvocati scalzi” nel marzo 2003 dopo la morte di un giovane migrante in un centro di detenzione di Guangzhou. Smantellato l’associazionismo, negli ultimi dieci anni l’amministrazione Xi Jinping ha introdotto norme rigidissime per le Ong, un tempo punto di riferimento per chiunque volesse affacciarsi al mondo dell’advocacy. Così che oggi i nuovi paladini dei diritti sociali agiscono perlopiù da battitori liberi con ancora meno tutele di un tempo. 

Nessun aiuto nemmeno tra le mura di casa. Mentre le “proteste dei fogli bianchi” hanno attratto una partecipazione trasversale, includendo più generazioni e strati sociali, in genere questi giovani attivisti improvvisati faticano ad ottenere l’appoggio delle famiglie. Spesso i genitori ricoprono incarichi statali e appartengono alla classe media, vera beneficiaria del miracolo economico cinese degli ultimi quarant’anni. “Non ho informato mio padre e mia madre. Sono certa che si arrabbierebbero molto se sapessero cosa sto facendo”, ci racconta una delle ragazze di Gongmin Ribao, “potrebbero pensare che sia troppo rischioso. Che sia una perdita di tempo perché non giova in alcun modo al mio futuro.” Ma aggiunge: in realtà “anche loro sono scontenti della situazione attuale, solo che pensano che quello che sto facendo non servirà a nulla. Quindi è meglio restarne fuori.” 

Gli insegnanti non sono di maggiore comprensione. D’altronde, il settore dell’istruzione è stato tra più colpiti dalla rettificazione ideologica avviata da Xi. Le università, motore delle storiche sollevazioni studentesche – dal movimento del 4 maggio 1919 alle proteste di piazza Tian’anmen – sono oggi chiamate a formare cittadini modello con l’organizzazione di corsi sul marxismo e il “pensiero di Xi Jinping”. Anche temi un tempo tollerati, come i diritti LGBTQ+, sono ormai considerati tabù. O meglio una devianza importata dall’occidente. Due ragazze hanno recentemente sporto querela contro la rinomata Tsinghua University di Pechino dopo essere state sanzionate per aver distribuito nel campus dei volantini arcobaleno, simbolo dell’orgoglio gay e lesbico. La difesa dei diritti bottom-up è un terreno scivoloso anche quando ricalca le storiche lotte sociali del partito: nel 2018 diversi studenti neo-maoisti iscritti alle università Peking e Renmin sono stati prelevati dalla polizia a causa del loro attivismo in difesa della classe operaia cinese. 

Allargando l’obiettivo, la risposta della società all’advocacy cambia a seconda delle aree geografiche e della sensibilità del tema affrontato. Secondo lo studio “Public Opinion in China: A Liberal Silent Majority?”, a cura del CSIS Trustee Chair in Chinese Business and Economics e dello  Stanford Center on China’s Economy and Institutions (SCCEI), i residenti urbani, benestanti e con un buon livello di istruzione, sono il segmento sociale generalmente più liberale e quindi più reattivo davanti alle mancanze della classe politica. Tanto che stando alla ricerca, tra il 2018 e il 2019, il 60% degli intervistati si è detto favorevole a esprimere liberamente il proprio giudizio sul governo, sia positivo che negativo. Anche a costo di incrinare la stabilità sociale, considerata per decenni precondizione per scongiurare un ritorno agli stravolgimenti della rivoluzione culturale. Ma nelle zone della Cina rurale, più arretrate, prevale ancora una certa chiusura. Qui la trattazione di problematiche sociali, come l’omosessualità o la disabilità mentale, trova scarso ascolto. Complice anche il deflusso della popolazione più giovane e progressista, emigrata nelle grandi città in cerca di lavoro. 

In realtà, anche prima delle proteste di novembre, “c’è sempre stato un po’ di malcontento, soprattutto verso certe politiche che influenzano direttamente la nostra vita”, ci spiega un collaboratore di Gongmin Ribao, “molti di noi sono ormai abituati all’incoerenza delle politiche, alla loro mancata attuazione, o un’applicazione lasca per chi ha ‘connessioni’. In poche parole, i cittadini non si fidano del governo.” 

Come esprimere questa insoddisfazione senza finire nei guai? Qualcuno prova a dirottare i propri sforzi verso questioni sociali meno sensibili. Ora che il femminismo e i diritti LGBTQ+ sono percepiti come contrari all’agenda demografica di Pechino, c’è chi volge lo sguardo all’ambientalismo, più in linea con le priorità (ecologiche) del governo. Ma la tattica del compromesso non sempre funziona. Lo sa bene Ou Hongyi, giovanissima attivista portata via dalla polizia più volte mentre esponeva in strada dei cartelli per sensibilizzare i passanti ai cambiamenti climatici. La sottile linea rossa tra il lecito e l’illecito è sempre più sfumata. Chi la oltrepassare spesso lo fa inconsapevolmente. 

Va detto che per gli apprendisti dissidenti i rischi sono solitamente più contenuti, se paragonati alle pene detentive inferte negli ultimi anni alla vecchia guardia. Specie a chi ha intrattenuto frequenti contatti con l’estero. Come ricorda l’amministratore di Gongmin Ribao, il movimento dei “fogli A4” “è stato represso in modo relativamente soft rispetto alle proteste del Tian’anmen. Per ora – esclusa Kamile Wayit – non si hanno notizie di persone condannate in riferimento alle rimostranze di novembre.” 

Il governo d’altronde può ancora contare su un forte deterrente. “Rompere il sistema ha un costo troppo alto”, commenta il ragazzo, “per molti è più conveniente far finta di sostenere il governo, nella speranza che questa risposta positiva induca le autorità ad agire in modo responsabile.” È un patto implicito: “Se dico che ti sostengo, tu devi almeno fare del tuo meglio”. Finora il gioco delle parti ha funzionato abbastanza bene. Ma in futuro? “Le relazioni tra cittadini e potere politico sono cambiate”, ammette l’attivista che però non attribuisce la svolta alla protesta in sé. “È la politica Zero COVID che le ha cambiate”.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Gariwo]