L’allegoria di una nazione

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Se il “rimosso” torna nella città reale sottoforma di strutture architettoniche tradizionali, nell’equivalente città filmica, la storia, le persone e le strutture ritornano spesso  sotto forma di fantasmi o inquietanti creature.

Nel celebre saggio sulla “letteratura del terzo mondo”, Fredric Jameson suggerisce che la letteratura (e qualsiasi altro prodotto culturale) dei paesi “in via di sviluppo” non presenta distinzione tra sfera politica e sfera personale, come se in essa si abbattesse quel tabù occidentale – che  garantisce invece questa separazione – per cui Marx e Freud non possono trovarsi nella stessa “stanza”:

“All third-world texts are necessarily, I want to argue, allegorical, and in a very specific way: they are to be read as what I will call national allegories, even when, or perhaps I should say, particularly when their forms develop out of predominantly western machineries of representation, such as the novel.”

Secondo Jameson, persino i testi apparentemente “privati” investiti di dinamiche libidinali proiettano una dimensione politica in forma di allegoria nazionale. La storia del destino individuale è sempre l’allegoria di una situazione di assedio nel terreno pubblico della società e della cultura, soprattutto in contesti “non-occidentali”: non c’è bisogno di aggiungere che è precisamente la diversa proporzionalità dell’elemento politico e personale che rende questi testi “alieni”, di conseguenza resistenti alle modalità convenzionali di lettura occidentale.

Una simile occorrenza è legata alla trasformazione delle culture in questione nel momento dell’irruzione capitalista: un fenomeno che lo studioso americano esamina in termini di concezione marxista dei modi di produzione. Nella sua espansione graduale, il capitalismo come sistema economico si confronta con due modi di produzione distinti, che oppongono alla sua influenza forme di resistenza radicalmente diverse: una è la cosiddetta “società primitiva”, o tribale; l’altra è il modo asiatico di produzione, collegato ai grandi sistemi burocratici imperiali.

Jameson informa che in un passato antico le antinomie occidentali attualmente invalse – in particolare quella tra privato (soggettivo) e pubblico (o politico) – erano respinte. Oggi, in opposizione alle monumentali unificazioni del simbolismo modernista o dello stesso realismo, e ad una rappresentazione omogenea del simbolo, l’allegoria si dimostra ancora, o nuovamente, congeniale, per la sua discontinuità e polisemia.

Rivalutando la funzione di questa figura propria dell’immaginario medievale, che non prevedeva scissione tra sfera umana e sfera universale o divina, Jameson arriva a sostenere che ogni testo, o quasi, può essere interpretato come un’allegoria nazionale.

Lo studioso cita l’opera dello scrittore cinese Lu Xun – vissuto nei primi decenni del Ventesimo secolo – come esempio compiuto di allegoria nazionale. Lu, che ha vissuto momenti cruciali della storia cinese moderna come la fine dell’Impero, il conflitto sino-giapponese e le guerre civili che hanno portato alla fondazione della Repubblica Popolare, è autore di racconti e romanzi manifestamente allegorici sulla Cina e sulla costruzione (o distruzione) della sua identità di nazione moderna, nelle fasi che segnano il passaggio repentino dal passato al futuro, passando per un presente grottesco e spaventoso.

Lo scrittore racconta di questo presente attraverso le vicende di un “pazzo”, narrate in un diario fittizio: nel crescendo di delirio paranoico, l’uomo si convince di essere vittima di una cospirazione per cui le persone intorno a lui sono cannibali desiderosi di divorarlo e annientare i loro simili. Il libidinale come stadio della coscienza individuale e collettiva è il fattore centrale di questo impianto narrativo, in cui i sogni hanno non a caso un’importanza fondamentale.

Un’altra esplicita allegoria è quella costruita ne La vera storia di Ah Q, in cui il protagonista Ah Q, un superstite della Cina feudale, viene vessato in tutti i modi e infine condannato a morte senza opporsi in alcun modo alla sentenza; Jameson riconosce nella trama il rapporto della Cina con le potenze occidentali. I racconti sono complementari, perché colgono i due diversi ruoli che per Lu Xun la Cina interpreta: quello di vessatore (cannibale) e di vessato.

La sfera concettuale cinese è sempre stata contraddistinta da un elevato livello di organicità, per cui ogni idea astratta e concetto, ma anche ogni elemento materiale presente in natura, sono visti come parte di un unico schema: come nel mandala tibetano – un organigramma del mondo naturale e spirituale – le grandiose cosmologie imperiali dell’antichità uniscono per analogia quello che in occidente viene analiticamente separato.

Anche questa “integrazione” è collegata a quello che Marx ha definito “modo di produzione asiatico”, ed è tipica di paesi che per millenni hanno fondato la loro economia sull’agricoltura e sui cicli naturali da cui essa dipende, ma non è comunque sufficiente a spiegare in modo esaustivo la tesi qui citata.

L’elemento determinante, per Jameson, è la più recente esperienza di sottomissione coloniale: in paesi che hanno subito un’improvvisa e violenta dominazione straniera si è manifesta una visione della realtà in cui ogni elemento è interpretabile, anzi deve esserlo, alla luce dell’assoggettamento subito dall’esterno.

Un simile status di libertà sorvegliata non può infatti non ripercuotersi su qualsiasi aspetto della vita quotidiana; venendo a mancare le premesse per un’esistenza civile autonoma, tutto diventa politico o politicizzato: questo spiega anche la pervasività della censura e del suo modus operandi nei contesti in esame. A questo proposito, lo studioso fa riferimento a pensatori come Fanon e Gramsci, in particolare alla teoria della subalternità di quest’ultimo, complementare alla nozione di sovranità e stato sovrano.

Non si può far passare sotto silenzio il massiccio fronte di obiezioni che la teoria in questione ha sollevato. Jameson si è trovato a maneggiare nozioni che richiedono estrema cautela: il suo impianto teorico sembra ad esempio incagliarsi nella controversa definizione di subalternità, che nel caso dei paesi del Terzo Mondo non può essere interpretata come esclusivamente psicologica (quindi patologica), o economica, ma soprattutto culturale. A ben guardare, è la nozione stessa di “Terzo Mondo” ad essere per prima problematica.

Ritengo che una simile teoria vada utilizzata più che per la validità dei suoi singoli elementi, per il tipo di modello interpretativo che pone in essere, nell’analisi dei collegamenti che uniscono economia e cultura, struttura e sovrastruttura, entro un più ampio contesto geopolitico transnazionale, aggiornando l’impianto teorico marxista nella sua applicazione ai rapporti di potere tra aree d’influenza nel mondo.

Nell’apparente confusione tra l’analisi del contenuto e l’interpretazione di esso, Jameson ammette che l’individuazione di una “differenza radicale” rischia di riproporre il fantasma dell’Orientalismo, da lui prontamente esorcizzato con la considerazione che l’universalismo semplicisticamente predicato dal “Primo Mondo” rende auspicabile la consapevolezza della diversità, che non è un’onta né un’accusa, ma una condizione e un valore.

Esattamente come il concetto di nazione, anche quello di “cultura” o “identità culturale” corre il rischio di rappresentare un punto d’arrivo, una nozione statica fatta forzosamente corrispondere a un’ideale di cultura normativo e artificioso; ma per Jameson queste definizioni sono piuttosto una traccia permanente delle abitudini mentali e delle pratiche culturali stratificate nello spazio virtuale della nazione-popolo.

Di contro, nella loro denuncia della cesura tra pubblico e privato in atto nel mondo occidentale, Deleuze e Guattari introducono la nozione di “delirio”, una versione del desiderio che è insieme sociale e individuale: una forma di paranoia sociale che confluisce nelle relazioni familiari. Complementare alla nozione di delirio è quella di orrore, che trova nei testi filmici una collocazione ideale.

L’orrore individuale di cui parla Conrad è anche orrore politico e collettivo, un’istanza perturbante, priva di possibilità di redenzione. Come il timore del “pericolo giallo” ha determinato in Occidente la nascita di temi e schemi narrativi ben precisi, soprattutto nel cinema, così l’ossessione allegorica per i temi politici e nazionali – ormai anche transnazionali – che influiscono sul destino della comunità e dell’individuo, sembra informare in modo sostanziale i film che prenderò qui in esame.

Questo orrore è assimilabile al perturbante freudiano, anch’esso derivante da processi interpretativi della realtà che affondano nell’inconscio; ma è soprattutto, ancora una volta, orrore allegorico che nasce dall’accostamento forzato di categorie storico-politiche incompatibili, come quello gridato dal colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra.

La follia è un elemento che confluisce nell’articolato impianto allegorico della nazione. Tornando a Lu Xun e alla sua lettura della follia individuale e collettiva, si può notare come in Cina questa sembri essere il motivo dominante dell’allegoria nazionale: se l’orrido è precipuamente visivo, la follia è orrore concettuale che deriva dalla degenerazione della mente. La stessa follia è manifestata dagli eredi filmici dei personaggi di Lu Xun: Xiao Wu e Shu del film Mr Tree (2011) di Han Jie, personaggi il cui comportamento eccentrico è al tempo stesso sintomo e causa di una condizione “eccezionale” di emarginazione dalla società.

Nel caso di Shu “Mr Tree”, la scoperta di poteri psichici offre una possibilità di riscatto dal disagio sociale: in virtù del presunto contatto medianico che riesce a stabilire con le figure maschili della sua famiglia – un grande buco nero: il fratello maggiore ucciso dal padre, morto a sua volta – Shu diventa un specie di santone in grado di predire o influenzare il futuro, rispettato e temuto dalla comunità che lo aveva in precedenza emarginato. La figura paterna ricorre e viene evocata come assenza, dietro la quale si cela forse l’altro grande fantasma cinese: Mao Zedong.

Le vicende di questi personaggi sono intrecciate con il destino della Cina, la cui follia schizofrenica implicita nella formula “un sistema due paesi”, è recintata nei cantieri e nelle miniere del “cuore di carbone” del paese: luoghi desolati e sinistri, pieni di fantasmi passati o futuri, dove la natura più che un paesaggio sembra un relitto.

In questo quadro la città si configura come un miraggio, comunque sempre troppo lontana e inaccessibile: anch’essa un fantasma, un fenomeno del tutto incomprensibile, se non aberrante. Lo spazio urbano di modeste città di provincia viene evocato e a volte fuggevolmente mostrato come modello che richiede una mobilitazione di risorse materiali e psicologiche di cui i personaggi dei film non sembrano essere dotati. Non è un caso che soggetti come Xiao Wu e Shu, fortemente radicati nel paese di origine, non solo rifiutino l’idea della rilocazione in città, ma si identifichino completamente nella periferia semi-urbana o urbanizzata, l’ambiente in cui sono nati e cresciuti.

I diversi alter ego dal profilo psicologico opposto, sono ex-compagni di avventure o parenti che vivono in città e che partecipano in qualche modo alle attività e ai ritmi urbani: se i protagonisti sono ingenui, insicuri, privi di senso pratico e sconclusionati, i loro antagonisti sono persone efficienti e organizzate, in grado di fare economia di tempo e parole, che si traduce in profitto. L’incapacità di adeguarsi ai nuovi tempi e alla nuova Cina sfocia nella depressione: il depresso vive sulla propria pelle la temperie politica, che ne amplifica la percezione di sconfitta individuale.

Nei testi menzionati, l’allegoria che allude al disorientamento di un paese è ben espressa dall’esaurimento nervoso di soggetti vulnerabili, vittime di uno sbandamento che è quello di una larghissima fetta della popolazione – negletta non perché poco rappresentativa, ma perché poco rappresentata – che non riesce a stare al passo con i ritmi imposti dalla nuova economia e dai suoi nuovi scenari, fisici e mentali.

*Mariagrazia Costantino ha frequentato un Master in Media and Film presso la SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e ha da poco conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Cinema presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. È coautrice di Arte Contemporanea Cinese (Electa) e ha contribuito alla stesura del testo World Film Locations: Beijing.