Nella guerra commerciale tra le due grandi potenze, molte informazioni provengono dagli Stati Uniti, dai tweet di Trump alle analisi dei media. La Cina, invece, è particolarmente discreta, il che fa pensare che sia sulla difensiva, in posizione di debolezza. Eppure è meno a disagio di quanto pensiamo. Come capire il comportamento cinese?
La prima domanda che si è posta la Cina è stata: qual è il vero scopo di Trump? Inizialmente, il suo obiettivo dichiarato era quello di risolvere il problema del disavanzo commerciale abissale registrato nei confronti della Cina (320 miliardi di dollari solo per il 2018). Ma quando, a conclusione della missione del vice primo ministro Liu He avvenuta a metà maggio in cui egli si era impegnato a compiere massicci acquisti di prodotti agricoli ed energetici statunitensi, Trump sconfessandolo aumentò le sanzioni commerciali, divenne chiaro che il deficit commerciale non era il vero obiettivo.
Le varie azioni statunitensi, dall’opposizione ai trasferimenti di tecnologia sino agli attacchi al piano “Made in China 2025” e gli ostacoli frapposti contro Huawei, indicano l’obiettivo finale: ostacolare un rivale che potrebbe superarli. La Cina lo ha capito bene e non si è neanche presa la briga di sostenere che il vero deficit degli Stati Uniti con la Cina è molto inferiore ai 320 miliardi annunciati, a causa di due fattori: prima di tutto, l’equilibrio dei servizi è largamente favorevole degli Stati Uniti e, la Cina è l’assemblatore finale di molti prodotti, così che i prodotti realizzati in Cina sono considerati per il loro intero prezzo anche quando il valore aggiunto cinese è molto basso.
La guerra è inevitabile, come guidarla quindi?
Il segretario al commercio Wilbur Ross l’ha detto, con sottigliezza tutta trumpiana: “abbiamo più munizioni di loro e loro lo sanno”. Ma è vero? L’esempio di un iPhone importato dalla Cina negli Stati Uniti e venduto a 1.000 USD suggerisce più cautela: il suo valore aggiunto in Cina è di poche decine di dollari. Il resto si divide tra componenti coreane, singaporegne e giapponesi, e soprattutto spese di ricerca e sviluppo, marketing, distribuzione americana e, infine, profitti sostanziosi di Apple.
Quindi, i dazi doganali più elevati che sarebbero imposti alla Cina avrebbero ancora più impatto sul consumatore americano e sull’azienda Apple che sull’industria cinese. Inoltre, Nicholas Lardy del Petersen Institute ha realizzato uno studio che dimostra che la crescita della Cina dipende molto meno dalle esportazioni di quanto pensiamo, perché ora è basata per l’80% sulla domanda interna contro il 50% durante la crisi del 2008.
Da dove viene allora il vantaggio che si attribuisce agli Stati Uniti?
In realtà, questa guerra cade in un brutto momento per la Cina. Arriva nel periodo in cui il governo ha iniziato a ridurre il debito gravato dalle conseguenze del piano di ripresa del 2008, finanziato principalmente con il credito bancario. Pertanto, può utilizzare solo moderatamente la molla dell’investimento pubblico. Se si scarta l’esportazione ostacolata da Trump, restano due molle per la sua crescita: consumi e investimenti privati.
Trump ha ottenuto un primo notevole successo: ha messo in agitazione la classe media cinese e gli imprenditori privati. Per quanto il governo cinese moltiplichi le misure per sostenere gli investimenti privati (facilitazione dei finanziamenti) e il consumo (riforma fiscale, estensione delle prestazioni sociali…), i cinesi non si fidano sia all’esterno di fronte a Trump sia all’interno in cui due industrie di primo piano, quella automobilistica e delle costruzioni, sono colpite dalla crisi.
Al contrario, gli Stati Uniti sono ancora poco colpiti perché l’amministrazione ha scelto di tassare principalmente i prodotti intermedi e le ricadute sono state avvertite poco a livello del consumatore. Tuttavia, se dovessero essere decise nuove tasse, queste li riguarderebbero direttamente: i prezzi aumenterebbero, le vendite subirebbero un impatto così come i profitti delle società americane. La brutale caduta in borsa di Apple ne è un primo segno. Ma l’ultima cosa che Trump desidera conoscere è un crollo del mercato azionario!
In sintesi, l’impatto reale sulla Cina è limitato, ma l’effetto psicologico è stato immediato e forte, mentre l’impatto sugli Stati Uniti rischia di essere più forte a lungo termine ma molto limitato a breve termine e persino le contro-sanzioni cinesi hanno avuto scarso effetto.
Gli strateghi cinesi hanno dunque capito che il momento, elemento cruciale di ogni strategia, non gli era favorevole. Inoltre, notano che se Trump è molto brutale nei confronti di paesi che considera deboli, ha sempre trattato con più riguardo i paesi che considera forti, che si tratti di Russia, Corea del Nord o Arabia Saudita. E Trump sa che la Cina ha più munizioni di quanto pensiamo.
In queste condizioni, è necessario guadagnare tempo, ristabilire un minimo di fiducia, tenere a galla l’economia per continuare la sua ristrutturazione e salire nella value chain. Occorre permettere a Trump di cantare vittoria concedendogli un po’ di terreno per preservare l’essenziale, cosa che sarà fatta perché non andrà troppo lontano. Questo è quello che pensano gli strateghi cinesi.
Speriamo che non si sbaglino. È nell’interesse di tutto il mondo.
*André Chieng, Foreign Trade Advisor per la Francia in Cina, cavaliere della Legione d’onore francese, fondatore del gabinetto di studio AEC, autore di libri tra cui “La pratica della Cina”.
**Traduzione a cura di Filippo Lubrano, consulente sviluppo business mercati asiatici, autore. Il suo ultimo romanzo è “Radici Aeree” (Leucotea).