La democrazia indiana in pericolo

In Asia Meridionale, Economia, Politica e Società by Matteo Miavaldi

E’ un momento fatidico per noi in India, per tutta l’Asia e per il mondo. Sorge una nuova stella, la stella della libertà in Oriente, nasce una nuova speranza, una visione a lungo accarezzata si materializza. Che quella stella non tramonti mai e che quella speranza non sia mai tradita!” Così veniva inaugurato in India il più grande esperimento democratico al mondo: con un discorso in inglese di 1095 parole pronunciato in meno di cinque minuti intorno alla mezzanotte del 14 agosto 1947 dal primo premier dell’India indipendente Jawaharlal Nehru davanti all’Assemblea Costituente indiana. Le sue parole sarebbero risuonate per i decenni a venire.

Da allora, India e democrazia sono per l’Occidente un binomio inscindibile, un’anomalia in un continente asiatico dove la ritirata delle forze coloniali europee ha spesso lasciato spazio a monarchie, dittature militari e democrazie formali piuttosto claudicanti. Salvo 21 mesi di stato d’emergenza imposti dalla prima ministra Indira Gandhi tra il 1975 e il 1977 – con sospensione dei diritti civili, arresti a tappeto tra sindacati, opposizione e movimenti studenteschi, sterilizzazioni di massa nella “hindi belt” del Nord – la democrazia indiana è sempre riuscita a imporsi sulle derive autoritarie che ciclicamente hanno attraversato la politica del subcontinente. Un record che ora, nel 2020, rischia concretamente di essere infranto.

Liberi dagli eccessi di entusiasmo esotico con cui noi occidentali siamo soliti approcciarci alle vicende indiane, tra chi osserva e analizza l’India dall’interno non sono mai mancati giudizi netti e impietosi sullo stato reale della “più grande democrazia del pianeta”. Corrosa dalla corruzione e dal familismo, zavorrata da un calendario elettorale fittissimo tra consultazioni locali, statali e nazionali; ostaggio di partiti personali legati a doppio filo con una tra le imprenditorie neoliberiste più aggressive del continente, l’epopea democratica indiana si è sempre accompagnata a una certa dose di frustrazione, diffusa soprattutto tra i suoi più strenui difensori.

I campanelli d’allarme hanno iniziato a suonare dal 2014, quando la coalizione di destra guidata dal partito nazionalista hindu Bharatiya Janata Party (Bjp) stravinse le elezioni nazionali candidando alla guida del Paese Narendra Modi, promettente politico originario del Gujarat cresciuto tra le fila dell’organizzazione paramilitare ultrahindu Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss). Eletto nel maggio 2014 come promotore di un nuovo “Indian Dream” neoliberista, nei quattro anni del suo primo mandato Modi non è riuscito a mantenere molte delle sue sfavillanti promesse elettorali.

 

La democrazia indiana è sempre riuscita a imporsi sulle derive autoritarie che hanno attraversato la sua politica. Un record che ora rischia di essere infranto.

 

Il PIL è tornato a crescere a ritmi considerevoli – oscillando tra +5 e +9 per cento in sedici trimestri – ma le ricadute concrete su 1,3 miliardi di indiani sono state risibili. La profezia nera della “crescita senza posti di lavoro” si è puntualmente avverata, aggravata dalla stagnazione di un mercato del lavoro dove il settore formale (salariato, contrattualizzato) impiega meno del 10 per cento della forza lavoro; il resto ingrossa l’esercito dei lavoratori informali: senza contratti, senza tutele, senza pensione, senza welfare. L’India del primo governo Modi, insomma, non ha fatto il salto di qualità sperato. Gli acche din (giorni felici, in hindi) che il premier aveva promesso al Paese non sono arrivati.

Nel 2019 si torna a votare e Modi corre per la rielezione con un’agenda politica radicalmente stravolta. Smessi i panni di campione del capitale, opta per un ritorno alle origini settarie e islamofobe della Rss, movimento che affonda le radici nel suprematismo hindu teorizzato agli inizi del Novecento dall’ideologo ultrahindu Vinayak Damodar Savarkar. L’impianto ideologico che da quasi un secolo ispira milioni di fanatici hindu è contenuto in un pamphlet pubblicato da Savarkar nel 1923. Si intitola Hindutva: Who is a Hindu? e, tra le altre, propone la creazione di un “Hindu Rashtra”: uno Stato confessionale per fedeli hindu e affini (sì buddhisti e sikh; no musulmani e cristiani).

Nel secolo scorso le cose non andarono come auspicato dagli accoliti di Savarkar. La repubblica indiana fu fondata su principi di laicità, multiculturalità e, parafrasando Nehru, di “unità nella diversità”. Il Mahatma Gandhi, simbolo della frangia non-violenta del movimento d’indipendenza, nel gennaio del 1947 fu assassinato da Nathuram Godse, membro della Rss. Godse accusava Gandhi di aver tradito la maggioranza hindu assecondando le richieste politiche della comunità musulmana. Fu condannato a morte e impiccato nel 1949. Pur relegata per decenni ai margini delle istituzioni repubblicane, scontando lo stigma di aver ucciso il Padre della patria indiana, la Rss ha continuato a espandersi a macchia d’olio nel tessuto sociale hindu del Paese, pari all’80 per cento della popolazione.

Suddivisa in decine di migliaia di sezioni sparse in tutto il territorio, il movimento attira milioni di giovani maschi hindu di ogni estrazione sociale, provvedendo alla formazione ideologica, politica e paramilitare dei suoi membri. Gli affiliati più brillanti vengono indirizzati a intraprendere la carriera politica, fungendo da bacino d’utenza per i quadri di partito del Bjp.

 

Nelle elezioni del 2019, Modi opta per un ritorno alle origini settarie e islamofobe della Rss, movimento che affonda le radici nel suprematismo hindu.

 

Modi, che inizia a militare nella Rss all’età di otto anni, costruisce la campagna del 2019 attorno a 75 promesse elettorali. Quelle che infiammano i comizi sono tre: realizzare ad Ayodhya, in Uttar Pradesh, un grande tempio dedicato al dio Ram; togliere l’autonomia allo stato del Jammu e Kashmir, l’unico a maggioranza musulmana della Repubblica indiana; agevolare il rilascio della cittadinanza ai migranti irregolari non musulmani.

La National Democratic Alliance (la coalizione guidata dal Bjp) si aggiudica alla camera bassa 353 seggi su 542. Modi inizia il suo secondo mandato il 30 maggio del 2019, con una nuova squadra di governo composta da 58 ministri. Dei 53 appartenenti al Bjp, 38 sono cresciuti nelle “shakha” (sezioni, in hindi) della Rss. Con un esecutivo mai così vicino al suprematismo hindu e forte di una maggioranza schiacciante in parlamento, il secondo governo Modi si mette subito al lavoro.

Nel nome di Ram
Il 6 dicembre del 1992 è la data di inizio dell’ascesa inarrestabile dell’ultradestra hindu nell’agone politico indiano. Ad Ayodhya, città dell’Uttar Pradesh, centinaia di fanatici hindu si sono dati appuntamento alla moschea Babri, costruita nel sedicesimo secolo per volere dell’imperatore Babar della dinastia Moghul. Secondo una teoria del complotto resa popolare negli anni Ottanta dai vertici del Bjp – all’epoca forza politica minoritaria -, per fare spazio alla nuova moschea le truppe musulmane rasero al suolo un grande tempio hindu eretto nel preciso luogo di nascita del dio Ram.

Onta che, quattro secoli dopo, la comunità chiamata a raccolta dai leader dell’estremismo hindu non poteva più sopportare. La moschea doveva essere demolita e il “grande tempio di Ram” doveva tornare a svettare nel cielo di Ayodhya.Il Bjp, assieme alla galassia di sigle dell’estremismo hindu che gravita attorno alla Rss, organizzò una mobilitazione popolare oceanica, raccogliendo aspiranti demolitori patriottici in tutta l’India del Nord. Il 6 dicembre del 1992, quella che doveva essere una cerimonia simbolica di deposizione della prima pietra del tempio di Ram si trasformò in una demolizione collettiva della moschea Babri, abbattuta a calci, pugni e picconate da migliaia di fanatici. Negli scontri tra hindu e musulmani che infiammarono per settimane tutto il Paese morirono almeno duemila persone, in maggioranza musulmani.

 

Il 6 dicembre del 1992 è la data di inizio dell’ascesa inarrestabile dell’ultradestra hindu nell’agone politico indiano.

 

Si aprono due filoni giudiziari. Il primo deve determinare chi, tra hindu e musulmani, abbia il diritto di costruire sul terreno della discordia il proprio luogo di culto. Il secondo vede alla sbarra 32 esponenti dell’estremismo hindu, tra cui diversi membri del Bjp, accusati di aver incitato la folla e pianificato la demolizione della moschea. Il 9 novembre 2019, la Corte Suprema assegna i 2,8 acri di terreno contesi a una fondazione istituita ad hoc dal governo per supervisionare la realizzazione del “grande tempio di Ram” ad Ayodhya. Il 5 agosto 2020, il primo ministro Narendra Modi presenzia alla cerimonia di deposizione della prima pietra del tempio. La cerimonia viene trasmessa in diretta dalle principali emittenti nazionali.

Il 30 settembre 2020, la Corte speciale del Central Bureau of Investigation (CBI, una delle polizie federali dell’India) ritiene che non ci siano prove sufficienti per procedere contro i 32 imputati accusati di associazione a delinquere per i fatti di Ayodhya: tutti assolti. I rappresentanti della comunità musulmana hanno annunciato il ricorso in appello.

Anand Patwardhan, regista e autore di Ram Ke Naam (“Nel nome di Ram”), lungometraggio che documenta la campagna d’odio intercomunitario promossa dal Bjp nel 1991, nel novembre 2019 dichiara: “In un certo senso, penso che stiamo soffrendo ancora oggi le conseguenze di quell’episodio, poiché la divisione tra hindu e musulmani da allora non è mai stata veramente sanata”.

Un golpe parlamentare contro dodici milioni di kashmiri
Al centro di una disputa territoriale risalente alla prima metà del secolo scorso, la questione kashmira è da sempre uno dei nervi scoperti della democrazia indiana. India e Pakistan entrano in guerra per il controllo del Kashmir nel 1947, appena dopo le rispettive indipendenze. Le Nazioni Unite, intervenute per mediare tra le parti, riescono a imporre il cessate il fuoco nel 1949, disponendo che l’India organizzasse una “consultazione popolare” per far decidere alla popolazione kashmira se entrare a far parte della Repubblica indiana o di quella pachistana.

Il referendum non sarà mai indetto e il Kashmir, di fatto, viene diviso in due parti: quello amministrato dall’India, confluito nello stato del Jammu e Kashmir, e l’Azad Kashmir, amministrato dal Pakistan. Una terza parte, prevalentemente montuosa e scarsamente abitata, a cavallo tra India e Pakistan, è reclamata anche dalla Repubblica popolare cinese. Nel 1963, il Pakistan riconosce la sovranità cinese del Trans-Karakoram Tract; la porzione indiana, denominata Akshai Chin, è tuttora contesa tra New Delhi e Pechino – ma amministrata di fatto dall’India.

 

La questione kashmira è da sempre uno dei nervi scoperti della democrazia indiana.

 

La maggioranza della popolazione kashmira considera il controllo esercitato dal governo indiano al pari di un’occupazione militare, con l’esercito di New Delhi massicciamente dispiegato in tutta la valle del Kashmir da un lato per contrastare le iniziative di gruppi terroristici islamici pachistani, dall’altro per reprimere i movimenti indipendentisti autoctoni, sfociati nella lotta armata dall’inizio degli anni Novanta. Secondo le ultime stime, l’esercito indiano schiera oggi in Kashmir quasi un milione di soldati, consolidando il primato di territorio più militarizzato al mondo. Dal 1990 le truppe indiane di stanza in Kashmir sono protette da una legge speciale (Afspa) che, tra le altre, fornisce a ogni soldato immunità legale totale.

Il 5 agosto 2019 il parlamento federale indiano approva la modifica dell’articolo 370 della Costituzione che, per 70 anni, ha garantito allo stato del Jammu e Kashmir lo status di territorio a statuto speciale. Per effetto della revoca, lo Stato viene suddiviso in due “union territories” direttamente amministrati da New Delhi, misura adottata senza consultare l’assemblea parlamentare del Jammu e Kashmir (all’epoca commissariato). Nelle settimane precedenti il golpe parlamentare orchestrato dal Bjp, l’intera classe dirigente kashmira viene messa agli arresti domiciliari per “prevenire proteste”. Tra ministri, ex chief minister, leader e quadri dei partiti locali – senza distinzione tra formazioni politiche pro-India e indipendentiste – finiscono in carcere migliaia di persone. L’intera valle del Kashmir, coi suoi 12 milioni di abitanti in larga parte musulmani, viene posta sotto lockdown e blackout delle comunicazioni. Human Rights Watch parla di violazione dei diritti umani e di “fallimento dell’India”. Numerosi attivisti paragonano l’istituzione di “campi di deradicalizzazione” in Kashmir – dove l’esercito indiano spedisce anche detenuti minorenni – ai campi di detenzione del Xinjiang, dove il governo cinese ha internato milioni di uighuri.

Il 6 agosto 2019, sul quotidiano Indian Express, il politologo Pratap Bhanu Metha – tra gli oppositori più acuti del regime di Modi – scrive:

Il modo in cui il governo del Bjp ha modificato lo status del Jammu e Kashmir (…) ne rivela la propria vera natura. Questo è uno stato per cui l’unica moneta corrente è il potere crudo. Questo è uno stato che non riconosce alcun vincolo di legge, libertà o moralità. Questo è uno stato che si farà beffe della democrazia. Questo è uno stato il cui principio psicologico è la paura. Questo è uno stato che farà dei propri cittadini carne da macello per le proprie pretese nazionaliste distorte. (…) Il Bjp pensa di indianizzare il Kashmir. Ma, al contrario, potenzialmente vedremo la kashmirizzazione dell’India: la storia della democrazia indiana scritta nel sangue e nel tradimento.

Il 26 ottobre 2020 il ministero degli interni introduce la nuova legislazione necessaria a regolare le attività di compravendita di terreni e proprietà in Kashmir , d’ora in poi aperte anche ai non kashmiri. L’indianizzazione del Kashmir è iniziata.

 

Non è un paese per musulmani
L’11 dicembre 2019 il parlamento indiano approva il Citizenship Amendment Act (Caa), introducendo nuovi criteri per l’assegnazione della cittadinanza a migranti irregolari residenti in India provenienti da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. Per regolarizzare il proprio status e diventare cittadini indiani, i richiedenti dovranno dimostrare di aver vissuto in India per sei anni – prima erano 11 – e di appartenere a una minoranza religiosa del loro Paese d’origine. Ovvero, di non essere musulmani. Presentata come una misura caritatevole nei confronti delle minoranze perseguitate per motivi religiosi, in realtà il Caa è solo il primo stadio di un più ampio progetto identitario caro all’ultrainduismo di governo.

La seconda fase, come da programma elettorale, prevede l’introduzione del National Register of Citizen (Nrc), un registro nazionale in cui inserire tutti i cittadini indiani legali e procedere più agilmente all’identificazione e alla deportazione degli immigrati irregolari. Si tratta dell’evoluzione di un’idea formulata nel 2003, durante l’unica altra esperienza di governo del Bjp prima di Modi, quando un registro della cittadinanza ad hoc fu introdotto nello stato nordorientale dell’Assam. Lo strumento avrebbe dovuto facilitare l’individuazione e l’espulsione degli immigrati irregolari – a maggioranza musulmana – provenienti dal vicino Bangladesh. A tutti i residenti dell’Assam è stato chiesto di produrre documentazione cartacea per provare che la permanenza in India della propria famiglia risalisse a prima del 26 marzo 1971, data dell’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. L’esito del censimento, supervisionato dalla Corte suprema dal 2013, è stato pubblicato il 31 agosto del 2019. Su 33 milioni di residenti, quasi due milioni sono stati esclusi dal registro dei cittadini regolari dell’Assam.

Secondo i detrattori del progetto, reperire certificati cartacei risalenti a cinquant’anni fa affidandosi ai caotici uffici della burocrazia indiana, specie nelle zone rurali, è un’impresa irrealistica e grottesca. Mentre sono in corso le istanze di appello degli esclusi dal registro, le autorità locali dell’Assam hanno già realizzato una serie di campi di detenzione per ospitare gli immigrati irregolari in attesa di espulsione. Se il colabrodo burocratico indiano affligge la popolazione in maniera trasversale, indipendentemente dal credo religioso di ognuno, l’entrata in vigore del Caa a livello nazionale fornisce al Bjp un escamotage per fare del registro dei cittadini un sofisticato strumento istituzionale di discriminazione su base religiosa. Non sei in grado di provare davanti alle autorità di essere “davvero” indiano, ma non sei musulmano? Nessun problema, puoi richiedere la cittadinanza attraverso il Caa. Sei musulmano? Lo Stato ti spoglia della cittadinanza indiana, ti mette in un campo di detenzione e ti “rimpatria”, anche se tu in Afghanistan, Bangladesh o Pakistan non ci sei mai stato.

Dal 12 dicembre 2019 manifestazioni di protesta spontanee iniziano a moltiplicarsi in diversi centri urbani. Dai dormitori delle università, migliaia di ragazzi e ragazze sfilano per le arterie delle metropoli indiane denunciando la discriminazione di Stato subìta dall’enorme minoranza musulmana: 200 milioni di persone, pari al 15 per cento della popolazione, che fanno dell’India il terzo Paese musulmano al mondo dopo Indonesia e Pakistan. Il 13 dicembre 2019, il ministero degli interni, che controlla le forze di polizia di New Delhi, manda gli agenti anti-sommossa a reprimere la protesta pacifica animata dagli studenti della Jamia Millia Islamia, tra le migliori università pubbliche del Paese. La polizia entra nel campus, chiude i cancelli, carica gli studenti, spara lacrimogeni nelle aule e in biblioteca. Scattano decine di arresti. Altri agenti rastrellano i quartieri residenziali intorno all’università, a maggioranza musulmana, a caccia di manifestanti da malmenare. Lo stesso copione va in scena nei quartieri a maggioranza musulmana nelle periferie della capitale, dove i manifestanti mettono a ferro e fuoco la città, e nelle principali metropoli del Paese.

 

Il Bjp utilizza il registro dei cittadini come sofisticato strumento istituzionale di discriminazione su base religiosa.

 

Il 14 dicembre 2019 centinaia di manifestanti, in gran parte donne musulmane, organizzano un sit-in permanente nello spiazzo di Shaheen Bagh, nei pressi del campus della Jamia Millia Islamia. Iniziata come risposta pacifica alla violenza della polizia sugli studenti e all’approvazione del Caa in parlamento, il movimento di Shaheen Bagh – apolitico e apartitico – diventa il simbolo dell’opposizione della società civile alle derive autoritarie e islamofobe del governo Modi. Il sit-in, ormai partecipato da centinaia di persone, viene sgomberato il 24 marzo 2020, in ottemperanza alle disposizioni di distanziamento fisico introdotte per l’emergenza COVID-19. Dal 23 al 29 febbraio 2020, la periferia nord-est di New Delhi, a maggioranza musulmana, è teatro di spedizioni punitive orchestrate da gruppi extraparlamentari ultrahindu. Muoiono 53 persone, di cui due terzi musulmani; i feriti, le case e i negozi dati alle fiamme si contano a centinaia.

Il 28 agosto 2020, un rapporto di Amnesty International India accusa la polizia di New Delhi di violazione dei diritti umani: si sarebbero rifiutati di intervenire a difesa della comunità musulmana e avrebbero partecipato alle violenze al fianco degli estremisti hindu. Un mese dopo, il 29 settembre 2020, Amnesty International India annuncia la sospensione delle attività nel Paese: il governo Modi, a seguito di indagini sulla provenienza di fondi dall’estero finiti nelle casse di Amnesty International India, ha disposto il congelamento immediato di tutti i conti correnti bancari della ONG.

Le indagini aperte dalla procura sulle proteste di dicembre 2019 e sugli scontri di febbraio 2020 hanno portato all’arresto di decine di studenti, attivisti, avvocati, giornalisti, scrittori, registi, tutti colpevoli di essersi opposti, pacificamente, all’introduzione del Caa. Tra gli indagati non figura nessun agente di polizia o membro di organizzazioni estremiste hindu. Il governo Modi intende introdurre il National Register of Citizen su tutto il territorio nazionale entro la fine del 2021.

Una rivoluzione eversiva nella più grande democrazia al mondo
Le vicende della moschea di Ayodhya, dell’autonomia kashmira e della legge sulla cittadinanza sono la manifestazione concreta di un progetto politico che arriva da lontano.

Con Narendra Modi, che nonostante una gestione della pandemia disastrosa e un’economia letteralmente in caduta libera  gode di un consenso abbondantemente sopra il 70 per cento , si compiono cent’anni di suprematismo hindu covato tra le pieghe della “più grande democrazia del mondo”.

Date le peculiarità demografiche e storiche dell’India, la rivoluzione eversiva in atto nel Paese è un fenomeno senza precedenti e, soprattutto, destinato a durare nel tempo. Lo spiega bene il sociologo esperto di subcontinente indiano Christophe Jaffrelot, co-autore con Pritav Anil del volume India’s First Dictatorship; The Emergency, 1975 – 1977. In una lunga intervista pubblicata su Scroll.in, Jaffrelot spiega come lo studio dello stato d’emergenza imposto dalla prima ministra Indira Gandhi alla fine degli anni Settanta sia utile per individuare similitudini e differenze tra l’unica parentesi dittatoriale della storia indiana e l’India sotto il governo Modi.

Concentrandosi sulle differenze, Jaffrelot dice:

La signora Gandhi non aveva alcun piano sul lungo termine quando dichiarò l’Emergenza, una mossa disperata per rimanere al potere – e poteva solo contare su un partito politico (l’Indian National Congress, nda) molto poco strutturato. Per contro, Narendra Modi ha conquistato il potere necessario a istituzionalizzare un’ideologia – il nazionalismo hindu – e può contare sulla Sangh parivar (la “famiglia” delle sigle dell’estremismo hindu, nda) per farlo. La temporalità dei due regimi è completamente diversa: la signora Gandhi non considerava l’Emergenza come “la nuova normalità”, e infatti la ritirò dopo 18 mesi. Il movimento nazionalista hindu ha una prospettiva di lungo termine e sta cambiando l’India più di ogni altra forza politica dal Congress del Mahatma Gandhi

La democrazia indiana non è mai stata così in pericolo.

[Pubblicato su Il Tascabile]