La crisi di virilità che preoccupa Pechino

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

La stretta sul settore era nell’aria da tempo. Da quando Xi Jinping è diventato presidente nel 2013 media e web sono stati sottoposti a un più rigido controllo nell’ambito di una campagna moralizzatrice e patriottica tesa a ridare lustro alla tradizione cinese e a traghettare il paese verso una “grande rinascita nazionale”.

“Volgari” e “malsane”. Così a settembre l’Amministrazione nazionale della Radio e la Televisione, l’ente regolatore dei media cinesi, definiva le star troppo effeminate, bandendole dall’industria dell’entertainment. Obiettivo: eliminare le “celebrità moralmente imperfette” per “correggere l’estetica” degli “stili performativi”, rinnovando “armadi e trucchi”. Il diktat, indirizzato tanto alla tv quanto ai siti di video streaming, per la prima volta faceva un utilizzo ufficiale dell’appellativo “niang pao” (“femminuccia”), termine dispregiativo con cui in Cina vengono bollati gli omosessuali. Comprensibile la preoccupazione con cui è stata accolta la notizia da influencer e comunità LGBT.

La stretta sul settore era nell’aria da tempo. Da quando Xi Jinping è diventato presidente nel 2013 media e web sono stati sottoposti a un più rigido controllo nell’ambito di una campagna moralizzatrice e patriottica tesa a ridare lustro alla tradizione cinese e a traghettare il paese verso una “grande rinascita nazionale”. Ne è conseguito il tentativo di rimuovere dal settore culturale le influenze straniere e diseducative. O almeno quanto percepito come tale. L’omosessualità, pur non essendo più illegale dal 1997, viene ancora considerata un tabù e sempre più comunemente associata alla “sinistra bianca” (baizuo).

Dal 2016 una legge contro i “contenuti volgari e immorali” vieta la trattazione di storie gay in tv. Tre anni più tardi le autorità hanno cominciato a oscurare gli uomini con orecchini e capelli colorati durante gli show televisivi. Ma nella giungla digitale i divieti faticano a tenere il passo dello streaming. A ottobre, dopo numerosi avvertimenti l’influencer Feng Xiaoyi è stato bannato da Douyin (la popolarissima versione cinese di Tik Tok) a causa del suo look poco virile.  Le ultime misure, apparentemente, sembrano quindi voler stringere ulteriormente le maglie della censura, sferrando un nuovo affondo contro i colossi tecnologici Alibaba, ByteDance e Tencent (già nel mirino dell’antitrust), accusati di chiudere un occhio davanti al dilagare del nuovo modello estetico sulle piattaforme digitali, sempre più diffuse tra i giovani. Il segmento sociale più permeabili alle pericolose influenze occidentali.

Lo scopo è duplice. Da una parte, promuovendo una netta separazione tra i sessi, il governo vuole preservare il valore sacro della famiglia, considerata dalla tradizione patriarcale confuciana “cellula” del corpo sociale. Oggi più che mai, in tempi di rallentamento economico, per raggiungere la grandeur nazionale occorre promuovere il matrimonio, rilanciare le nascite e posticipare l’ormai inevitabile calo demografico. Per questo l’identità di genere non è più considerata una questione personale, bensì un elemento in grado di incidere sul futuro del paese.

Dall’altra parte, si vuole evitare che quella che spesso è una semplice scelta di “stile” diventi un problema di sicurezza nazionale. Il timore è che un nuovo standard estetico importato da Occidente possa favorire la penetrazione di tendenze pericolose per la stabilità del paese: oggi è un piercing al sopracciglio, domani potrebbe essere la democrazia.

Nel 2019, un rapporto dell’Accademica cinese delle scienze sociali accusò l’intelligence americana di aver rammollito le star asiatiche. Nello studio dal titolo “Sai quanto lavora duramente la CIA?” il prestigioso think tank cinese riconduceva l’ascesa degli “artisti efebici” (“xiao xian rou” ovvero “carne fresca” in mandarino) alla Johnny & Associates, un’agenzia fondata dall’imprenditore giapponese Johnny Kitagawa nel 1962. Secondo il report, Kitagawa avrebbe tramato con la CIA per “indebolire il temperamento maschile della società giapponese” innescando un effetto domino in tutta l’Asia. Compresa la Cina.

Può sembrarci grottesco, ma oltre la Grande Muraglia non lo è affatto. Il motivo va ricercato nel “secolo dell’umiliazione”, il doloroso interludio storico che tra fine Ottocento e primi del Novecento vide le potenze imperialiste occupare militarmente l’ex Celeste Impero. A lungo definita la “malata d’Asia”, oggi la Cina seconda potenza mondiale vede nell’ostentazione della virilità e della forza fisica un’occasione di riscatto internazionale.

Non è solo un fatto di dignità e patriottismo. Il gigante asiatico, che non combatte una guerra dal 1979, davanti alle pressanti incursioni americane a largo delle coste cinesi sente la necessità di rinvigorire il proprio esercito, sovrappeso e composto per gran parte da figli unici viziati e molto meno inclini alla fatica dei propri genitori. Per porre rimedio lo scorso gennaio il Ministero dell’Istruzione ha divulgato un piano per “coltivare la mascolinità” dall’asilo fino alle superiori. Le misure comprendono più esercizio fisico a scuola e una valutazione dell’impatto delle celebrities sugli adolescenti. Chiaro segno dell’attenzione dedicata all’influenza delle star nella fase della crescita.

Infatti, mentre per Pechino gli “xiao xian rou” compromettono la virilità della Cina, gli “idol” androgini godono di una notevole popolarità tra i giovani. Ma non – come accusano le autorità – a causa delle contaminazioni stranieri. Dalla guerriera Mulan all’impersonificazione di ruoli femminili da parte di attori maschili nell’Opera di Pechino, la tradizione cinese – e asiatica in generale – ha sempre flirtato con un ambiguo trasformismo. Ancora oggi, il cross-dressing è un fenomeno molto comune sui social network cinesi, così come non è raro vedere influencer uomini promuovere online la vendita di rossetti e altri prodotti femminili. Sul piccolo schermo, il diffuso apprezzamento per canoni di bellezza eterei trova riscontro nella diffusione dei “flower boy”, giovani dai tratti delicati protagonisti delle soap cinesi e taiwanesi, mentre i manga giapponesi yaoi si spingono oltre, proponendo trame incentrate su relazioni fisico-romantiche esplicitamente omosessuali, più o meno idealizzate, nella stragrande maggioranza dei casi con protagonisti ragazzi e studenti poco più che adolescenti. C’è da chiedersi perché abbiano tanta fortuna tra un pubblico fondamentalmente etero. Femminile per giunta.

Parte della responsabilità ricade proprio su quei valori “ancien régime” che Pechino vuole imporre alle nuove generazioni. Chi propende per un ideale maschile anticonvenzionale spesso cerca di contrastare l’attribuzione aprioristica di una precisa collocazione e responsabilità sociale in base al genere, alla classe e all’età, come prevede la tradizione confuciana. C’è poi una componente di rivalsa femminista: l’esposizione mediatica dei “xiao xian rou” ribalta il concetto di oggettivazione della donna nell’industria dell’intrattenimento. Spostare il dibattito nella vita quotidiana è un altro paio di maniche. Ma piano piano, anche in Cina, l’emancipazione femminile rimette in discussione equilibri di coppia e gerarchie famigliare. Chiedere aiuto a Confucio non sembra la soluzione migliore.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Esquire]