La Cina dei grandi eventi musicali: lo Zebra Music Festival 2010

In by Simone

Nelle prime file la folla preme in avanti, protende occhi e braccia verso l’alto in un atteggiamento di venerazione urlata senza controllo. Davanti a tutti giovanissimi dai dieci ai sedici anni, affiancati da ragazzi ed adulti, pressati sulle transenne. Non siamo negli anni Sessanta e non ci troviamo a piazza Tiān’ān Mén. Non c’è nessuna guardia rossa a mobilitarsi nel nome del presidente Mao, nessuno che urla slogan ideologici al servizio del popolo. Un calcio alle stagioni passate, che oggi più che mai sembrano lontane anni luce: vestiti colorati, minigonne, creste, tatuaggi, trucco ed il tipico gesto delle corna a tre dita levato al palco.

Xīndū, uno dei tanti centri dell’hinterland di Chéngdū, capoluogo della provincia del Sìchuān. Un nome, quest’ultimo, divenuto tristemente noto in Occidente nel maggio di due anni fa, quando un violentissimo terremoto colpì la regione spazzando via la vita di oltre 80.000 persone. Sulle “ceneri di Wènchuān”, epicentro del terremoto del 2008, si è eretta la macchina organizzativa di un mega-evento musicale, diviso tra commemorazione ed elevati giri di interessi politici, culturali ed economici. Nel 2009, la prima edizione dello Zebra Music Festival è riuscita a convogliare nell’ampio parco di Băolì 150.000 paganti. Quest’anno le cifre sono state lievemente inferiori, registrando la maggiore affluenza nella prima delle tre giornate di concerti, con circa 50.000 spettatori. L’area concerti ha fatto da padrona, con i tre palchi dove si sono alternate le esibizioni musicali, ma il parco ha anche ospitato altre attività, con cinema, campi sportivi ed aree per la ristorazione e per il campeggio.

Quella che si agita tra il pubblico a tempo di musica è un’altra Cina rispetto a quella studiata sui libri di storia contemporanea, e solo prescindendo da ogni nostalgia idealizzata per il passato può essere avvicinata senza facili condanne. La Cina ideologizzata, speranza alternativa al modello consumistico, ha dovuto nutrirsi di molte vittime prima di potersi riconfigurare in un’immagine romantica e lasciare il posto ad una società gradualmente nuova e con nuovi problemi. È sempre un azzardo parlare di benessere in Cina, un paese dove la vera massa rimane lontana dagli occhi dell’Occidente. La Cina benestante resta una minoranza, ma una minoranza il cui impatto non può che emergere sempre di più nel mondo globalizzato ed omologabile contemporaneo.

La macchina organizzativa del festival è enorme, appoggiata dallo Stato e supportata dagli sponsor: Converse, Baidu, China Mobile, solo per citare i principali colossi internazionali e nazionali. Un ingranaggio commerciale ben familiare alle società occidentali, in cui la musica è, se non un semplice pretesto, solo un’anima romantica che ha bisogno di pubblicità e gadget standardizzati per potersi manifestare in un evento di queste dimensioni. I primi giorni di maggio, periodo in cui cade la festa dei lavoratori, sono l’occasione ideale per l’organizzazione di questi eventi, attirando una folla in cerca di svago e costruendo un legame ideale con gli eventi del maggio 2008.

La memoria sembra però occupare solo una parte marginale. La zona di “interesse pubblico,” riservata a gruppi di volontari ed alle ONG, è all’ombra dei grandi palchi e si sforza di mantenere in vita quella sensibilità pubblica che all’indomani del terremoto invase i media ufficiali con messaggi patriottici, salvo poi affievolirsi nel tempo. Piccoli stand espongono cartoline, tessuti, t-shirt ed altri prodotti realizzati artigianalmente dalle popolazioni delle regioni più povere colpite dal terremoto, con proventi che ritornano alla gente locale per compensare un’economia ancora spezzata e per dare mezzi di studio ai bambini provenienti da famiglie private dei mezzi di sussistenza.

Tra le principali ONG che hanno scelto di promuovere l’evento spicca C-Nature, organizzazione impegnata nella tutela dell’ambiente, che ha distribuito diversi punti informativi in tutto il parco per la raccolta differenziata dei rifiuti.
A farla da padrone è il mercato della musica: il palco principale appare immenso, degno dei migliori eventi musicali internazionali. È qui che convoglia la maggioranza delle persone, con band cinesi e straniere in grado di suscitare l’entusiasmo generale con pochissimo sforzo. Nei momenti di pausa, sul megaschermo alle spalle del palco si susseguono messaggi pubblicitari, mentre durante le esibizioni di tanto in tanto ricorrono forme di moderna mobilitazione disimpegnata: “Claps your hands”, “Scream”.

La gente però sembra non fare molto caso a tutto ciò e basta un pezzo tirato per scatenare un consenso esagitato tra la folla, volto all’abbattimento di ogni distanza fra palco e realtà. Il programma musicale è ricco di concerti di ogni genere: nei tre giorni di festival si sono esibiti poco meno di quaranta gruppi e artisti, di cui alcuni stranieri e molti legati alla scena musicale locale, sia alternativa che apertamente commerciale. Poche le realtà che si sono distinte con show degni di nota, ma chi è accorso in cerca di buona musica non sarà certamente rimasto indifferente all’esibizione degli israeiliani Asaf Avidan & the Mojos, il cui impatto emotivo, alimentato da una ripresa dei modelli classici della scena hard-rock, viene esaltato dalla splendida e appassionata voce di Asaf Avidan.

Pienamente riuscita anche l’esibizione del gruppo italo-cinese dei Pet Conspiracy, la cui formula elettro-indie trova piena espressione nell’impatto scenico che accompagna puntualmente le esibizioni del gruppo e nella forte presenza della cantante Helen. A conti fatti la band ha saputo “elettrizzare” pubblico, addetti ai lavori e forze dell’ordine, raggiungendo la massima partecipazione con la rivisitazione elettro della popolare canzone Zhàntái.

Di una qualità tutta improntata su musicalità più propriamente “cinese”, sono state, infine, le esibizioni mínyáo (folk cinese) che si sono svolte durante l’ultima data sul secondo palco, con i concerti di Zhang Muyang, Xiao He e soprattutto del cantautore Zhou Yunpeng, vero e proprio culmine emotivo della rassegna.

Eterogeneità. Musicale, nella sovrapposizione di vari stili e nella diversa provenienza geografica degli artisti, ma non solo: eterogeneità di ideali, laddove la chiara dimensione consumista dell’evento va a mischiarsi con ideali umanitaristici fino a perdersi nella tipica atmosfera da festival; e soprattutto eterogeneità di pubblico, che ha raccolto persone di estrazione ed età ben distanti fra loro. Molte delle band intervenute in conferenza stampa non hanno potuto fare a meno di notare la ricettività di un pubblico caldissimo e variegato.

C’è chi ha pensato che l’entusiasmo della folla fosse imputabile alla natura verace e calorosa dei sichuanesi; altri hanno parlato di Chéngdū come di una città molto composita ed inclusiva, o si sono limitati a constatare come un festival rappresenti un diversivo per una città che non ha lo spessore culturale di Pechino.

C’è qualcosa che potrebbe sfuggire in questo amalgama irrazionale, che ha messo insieme giovani disimpegnati e ribelli, ragazzi comuni e vestiti con un look di genere, famiglie con bambini piccoli e persino anziani con aria più incuriosita che disgustata. Sul prato vengono montate tende, si stendono teli, si estraggono carte o frisbee, mentre gli impianti diffondono a volume elevato note college-rock, reggae, folk, hardcore, metal, rock, pop… Mentre i “fuck…” urlati a squarciagola da giovani disimpegnati, gli “amori” sospirati da starlette patinate e persino la rabbia sociale di gruppi più “rumorosi” vengono tutti acclamati con impeto irrazionale.

Quel che è certo è il risultato, dove un generale senso di autenticità prevale su ciò che resta incompreso: tante tendenze diverse, a volte in apparente contrasto, convivono senza che nessuno crei problemi di alcun genere e nessuno si stupisca di niente. Le bandiere della Cina comunista sventolano con naturalezza mentre sul palco si esibisce una band taiwanese, che fra un pezzo e l’altro risponde al clamore cimentandosi in alcune frasi pronunciate con il dialetto locale. È solo una delle immagini di un festival preda di sponsor e poco propenso alla musica di qualità, ma pur sempre in grado di trovare nella musica un’occasione per lasciarsi alle spalle divisioni e pregiudizi. Riunendo gli spettatori e gli addetti ai lavori in un’acclamazione unitaria e condivisa. Raggruppando osservatori esterni ed anziani in una contemplazione di quella stessa acclamazione.