La ballata di Mulan e la strumentalizzazione nazionalistica

In Cina, Cultura by Redazione

A pochi mesi dall’uscita dell’ultimo film Disney sulla storia di Mulan, critiche e riflessioni continuano a emergere su blog e siti accademici. Già nelle ore successive alla prima uscita del trailer del film, il 7 luglio 2019, erano apparsi sul web cinese una enorme quantità di commenti critici nei confronti delle inesattezze storiche e stilistiche, tra le altre il trucco insolitamente moderno ed il fatto che la famiglia di Mulan risieda in un tulou, abitazione rurale cinese tipica del popolo Hakka nelle aree montuose del sud-est del Fujian, regione a sud della Cina, area geograficamente opposta rispetto a quella di origine della protagonista, quella degli Wei settentrionali

Di che cosa si parla, innanzitutto? Le moderne rappresentazioni cinematografiche si riferiscono ad una poesia di 330 caratteri, “La ballata di Mulan”,木兰词, che narra di una donna che veste abiti e rispetta atteggiamenti maschili per arruolarsi nelle forze armate al posto del padre malato, antologizzata nel XI-XII secolo nello樂府詩集 di Guo Maoqian 郭茂倩. La datazione è tutt’ora incerta: studiosi e storici la collocano all’incirca tra gli Wei Settentrionali (386-534) e la dinastia Tang (618-907). Le ambiguità compaiono anche in merito alle esatte origini geografiche della storia narrata, dovute al fatto che non vi è effettivamente nessuna prova archeologica a dimostrare l’esistenza del personaggio.

Entrambe le produzioni Disney, il primo cartone animato del 1998 e il film sopracitato, dipingono il personaggio di Hua Mulan come un’eroina cinese beneficiata da virtù che però non sono propriamente “cinesi”. I topoi tradizionali che figurano nella poesia antica, come la lealtà nazionale e la pietà filiale, mutano per riflettere lo spirito culturale “occidentale” e raccontare l’individualismo e l’emancipazione femminile. Mulan viene rappresentata come eroina della Cina moderna, pronta a battersi e a sacrificarsi per la patria, ma si muove in un’epoca storica in cui di certo non esisteva il paese Cina che conosciamo ad oggi. Si discute di questo (e non solo) nell’interessantissimo articolo pubblicato su #AsiaNow, il blog di Association of Asia Studies, dal Professor James Millward, docente di storia alla Georgetown University e autore, tra gli altri, di “Violent Separatism in Xinjiang: A Critical Assessment”. Dal titolo “More Hun than Han: Reading the Tabghach “Ballad of Mulan” in 2020”, l’articolo analizza con dovizia di particolari le discordanze tra la ballata tradizionale di Mulan e le moderne trasposizioni disneyane, citando fonti storiche e sollevando la questione su “quanto Han fosse Mulan?”.

Il conflitto che si configura come tematica principale nelle rappresentazioni cinematografiche è quello tra l’impero cinese, guidato da un saggio sovrano, e il popolo bellicoso degli Unni. Un conflitto in questi termini non trova però spazio nel testo tradizionale: non vi è traccia di una lotta popolare e solidale contro il nemico comune, di base perché all’epoca degli Wei settentrionali non si aveva una unità politica né geografica.

Nel 220 d.C., molto prima della ballata di Hua Mulan, crollò il grande impero degli Han, che ha dato il nome al gruppo etnico maggioritario in Cina (circa il 92% della popolazione cinese). Per decenni, i sovrani Han tentarono di fronteggiare militarmente il popolo nomade degli Xiongnu che, secondo gli studiosi, era con tutta probabilità antenato degli Xianbei. In ambito accademico, si propose in passato di utilizzare il termine “Unni” per indicare (anche) quell’impero nomade che, per precisare, fu il primo delle steppe mongoliche ad entrare in contatto con la Cina, nella seconda metà del IV secolo a.C.. Fino alla metà del II secolo a.C., essi riuscirono a sottomettere le tribù centroasiatiche e a dominare le oasi nell’attuale Xinjiang, fondando il primo impero delle steppe. L’identificazione di Unni con il popolo Xiongnu non è però comprovata da prove certe. Se ne parla invece con fondatezza storica secoli più avanti, quando gli Unni, popolo guerriero mongolo, probabilmente di ceppo turco e provenienti dalla Siberia meridionale, arrivarono nel IV secolo in Europa. Attorno alla metà del V secolo, guidati dal generale Attila, essi compirono svariate incursioni contro l’Impero Romano d’Occidente.

Solo dopo un lungo periodo di obblighi tributari nei confronti dei nomadi, gli Han riuscirono a creare una controffensiva che fu una delle cause della dissoluzione degli Xiongnu, datata all’incirca attorno alla metà del I secolo a.C..

Nella frammentata ambientazione sociale e politica che si andò formando successivamente alla caduta degli Han e in particolare durante il periodo denominato delle “dinastie del nord e del sud” (420-589), troviamo i Wei settentrionali北魏. Anche conosciuta come Tuoba Wei拓跋魏, la dinastia fu difatti fondata, nei pressi del Delta del Fiume Giallo, dagli Tabghach, letteralmente “clan Tuoba”, appartenente al popolo degli Xianbei. Di certo questo popolo parlava una lingua appartenente alla famiglia delle lingue altaiche, probabilmente una lingua mongolica, o turca secondo altri studiosi.

Sorvolando su queste disquisizioni di carattere linguistico, bisognerebbe invece prendere in considerazione la vastità del regno dei Wei del Nord, uno dei più estesi dell’epoca, e l’eterogeneità culturale che lo caratterizzava. La dicotomia cinese-unno delle rappresentazioni moderne non è storicamente valida. Se è vero che, come già detto, Mulan – personaggio che la Disney ha scelto per ben due volte di promuovere “as the epitome of Chinese princesshood, bravely battling for family and country” – proveniva da una famiglia degli Tuoba Wei, era probabilmente più unna che Han.

Shan Yu, capo degli Unni nel cartone Disney, viene rappresentato come personaggio ultra-negativo, assetato di sangue, malvagio e pure di colore scuro – più precisamente, di un grigio poco rassicurante. Una identificazione che riprende i classici schemi razzisti attraverso i quali le fonti europee hanno interpretato, sin dai tempi dei romani, i nomadi delle steppe provenienti dall’Asia interna. Shan Yu è a capo dei Tartari, termine che indicava in principio una tribù di origine turca che abitava le steppe a nord dell’odierna Mongolia già nel V secolo, ma che viene usato in seguito, in terra cinese e non solo, per indicare tutti gli invasori nomadi dell’Asia, indipendentemente dalla loro origine.

Una questione interessante è che per turchi, musulmani e bizantini, la parola “Tabghach” (gruppo etnico dei Tuoba) aveva un valore importante: almeno per alcuni secoli, divenne il nome che indicava l’intera Cina, malgrado l’identità non-Han della sua élite dominante. Nelle lingue parlate a nord e a ovest della casa di Hua Mulan, si parla di Cina prima utilizzando “Tabghach” e successivamente “Khitai” (Khitai o Khitan, nome di una popolazione mongola che nel IV secolo si trasferì in Manciuria).

L’imperatore cinese che appare nelle trasposizioni cinematografiche non è altro che uno dei tanti regnanti che co-abitavano l’attuale paese Cina. Proprio a questo proposito, James Millward cita due versi della poesia tradizionale:

昨夜見軍帖,可汗大點兵

“Last night (I/she) saw the military notice: the Kaghan’s great draft of soldiers”
(dalla traduzione dello stesso James Millward)

Il termine di origine turca o mongola “可汗” Kehan, kaghan o khan, è un appellativo di natura nobiliare, che indica il “sovrano”, il “monarca”. La stessa figura a cui, verso la fine della poesia, ci si riferisce per ben due volte con “天子”, il “figlio del cielo”, l’imperatore. Questa compresenza suggerisce che i termini, nelle regioni a nord post-Han, erano mutualmente scambiabili e che evidentemente si riferivano, nella regione del Tabghach, al sovrano del regno.

Il nuovo film disneyano offre al contrario un quadro più preciso, almeno in questo ambito. Il nemico supremo, che infatti viene chiamato Bori Khan, è il capo dei Rouran柔然, confederazione di tribù nomadi ai confini settentrionali della Cina che fondò un regno, il Khaganato Rouran, che perdurò dal IV secolo fino alla metà del VI secolo. Al Khaganato Rouran succedette nel 552 il Khaganato Turco, o Khaganato göktürk, fondato dal clan Ashina dei Göktürk, popolo di origine turca dell’Asia centro-orientale, noto alle fonti cinesi come tujue. Con essi nacque il primo stato turco ad usare politicamente il nome türk (turco) per riferirsi a sé stesso, anche noto per la prima attestazione scritta di una qualsiasi lingua turca della storia (Barbara A. West, Encyclopedia of the Peoples of Asia and Oceania. 2009).

Per concludere, ciò che l’autore intende evidenziare è che i riadattamenti moderni della storia di Mulan hanno rappresentato valori e narrazioni distorte o perfino inesistenti nella poesia tradizionale, tra gli altri la vittoria militare contro il feroce nemico molto più che barbaro, quasi alieno – uno dei termini genericamente utilizzati in cinese per intendere “barbaro” è Hu胡, che ricorre nel testo originale e che però sappiamo cambiare significato nel corso dei secoli: in epoca Qin e Han sta ad indicare i nomadi della Mongolia, come i Xiongnu, probabilmente in seguito anche gli Xianbei, tra cui quindi i Tabghach; durante i Tang, invece, designa gli abitanti dell’Asia centrale occidentale, come i sogdiani. La storia di Mulan viene quindi modificata fino a prendere le vesti di un racconto nazionalistico a tutti gli effetti, che ben si allinea all’attuale narrazione politica di Pechino.

Nella poesia tradizionale non vi è spazio per il feticismo guerriero, per la preparazione atletica, per il sacrificio individuale e per la descrizione delle azioni in battaglia. Si racconta invece della stanchezza della guerra e della voglia di ricongiungersi con i propri cari. Quando il sovrano chiede a Mulan cosa desideri come premio per il suo impegno in battaglia, lei rifiuta ogni offerta di alte cariche ufficiali: chiede solo un cammello che possa riportarla nella città natale (愿借明駝千里足,送兒還故鄉). La ballata di Mulan, conclude James Millward, non è altro che una critica sulla inutilità di guerre tra popoli che sono molto simili tra loro.

Di Vittoria Mazzieri*

**Vittoria Mazzieri, marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con un’ampia tesi di storia contemporanea che verte sul caso Jasic. Più volte in Cina sia per studio che per diletto, ha maturato negli anni una forte attrazione per gli sviluppi poco sereni dell’attivismo politico dal basso del “paese di mezzo”.