La Via della Seta divide il Kirghizistan

In Asia Centrale, Economia, Politica e Società by Redazione

In Asia Centrale, la corruzione viene spesso spiegata come un problema ancestrale, l’inespugnabile eredità di una presenza russa – dapprima imperiale e poi sovietica – che ha introdotto nella regione un opaco sistema di favori ad oggi quasi istituzionalizzato.

Secondo la classifica stilata da Transparency International nel 2018, il Kirghizistan figurava come il quarantaseiesimo stato più corrotto al mondo, un risultato non del tutto scoraggiante rispetto ai vicini Turkmenistan e Uzbekistan, che occupavano rispettivamente il ventesimo e ventitreesimo posto in graduatoria. Quest’anno, però, il ranking potrebbe subire una leggera variazione a danno di Bishkek in seguito alla scoperta del coinvolgimento di alcuni dei più alti funzionari del paese in un reato di concussione da diversi milioni di dollari.

Lo scandalo, emerso nuovamente in occasione della 15esima riunione ministeriale tra l’Unione Europea e i cinque stati centroasiatici tenutasi proprio nella capitale kirghisa lo scorso luglio, sarebbe dipeso da un contratto da 386 milioni di dollari che il Kirghizistan avrebbe stipulato con una compagnia di costruzione cinese nel 2013. L’azienda in questione, la Tebian Electric Apparatus (TBEA), si sarebbe infatti vista assegnare, in totale assenza di gara d’appalto, il contratto per il rinnovo della centrale termoelettrica di Bishkek, un dinosauro di epoca sovietica che necessitava di ingenti manutenzioni. A sua difesa, l’allora Primo Ministro Isakov aveva dichiarato che la scelta di TBEA faceva parte delle condizioni imposte dalla Cina per accedere ai prestiti a basso tasso d’interesse offerti da Pechino all’interno del piano della Belt and Road Initiative (Bri).

Ad esacerbare ancor più gli animi ha contribuito l’incidente occorso nel mese di gennaio, quando la negligenza della società cinese nel portare a termine i lavori ha dato luogo alla prolungata interruzione della fornitura di elettricità e d’acqua calda, proprio mentre la popolazione si trovava a fronteggiare temperature polari che sfioravano i – 27 gradi Celsius. Come se non bastasse, a dispetto del malfunzionamento della centrale, il Kirghizistan è tuttora indebitato con la banca Import-Export (EXIM) cinese per via del prestito che dovrà essere saldato entro il 2033.

Se in un primo tempo le indagini avevano già portato ad incriminare funzionari di alto calibro, tra i quali due degli ex primi ministri, Sapar Isakov e Jantoro Satybaldiev, la posta in gioco attuale sembra farsi ancora più elevata: è infatti lo stesso Almazbek Atambayev, ex presidente dal 2011 al 2017 nonché fedelissimo di Putin, ad essere finito nel mirino della giustizia. La svolta decisiva è avvenuta nel mese di giugno, quando Atambayev si è visto ritirare l’immunità presidenziale da parte del parlamento, che ha legiferato con una schiacciante maggioranza di 106 su 120.

Stando ai capi d’accusa resi noti, l’ex uomo forte del paese centroasiatico non sarebbe solo colpevole di concussione nella vicenda della centrale termoelettrica, ma risulterebbe anche coinvolto nell’appropriazione illecita di un terreno nella regione di Issyk-Kul region, nelle vicinanze di Bishkek. Al di là della probabile veridicità delle accuse, non c’è dubbio che i recenti sviluppi giudiziari siano stati rilanciati dalla crescente ostilità tra Atambayev e Sooronbay Jeenbekov, attuale presidente, all’origine della legislazione sulla revoca dell’immunità. Atambayev aveva infatti inizialmente sostenuto la candidatura di Jeenbekov alle elezioni del 2017, salvo poi fare marcia indietro quando si accorse che quest’ultimo non gli avrebbe permesso di governare il paese nel suo nuovo incarico.

Nel frattempo, l’ex presidente ha tentato in tutti i modi di sottrarsi all’arresto, non esitando a mobilitare le influenti amicizie del Cremlino. Il 24 luglio si è infatti diretto a Mosca, dove è stato ammesso ad un incontro privato con Putin. Dopodiché, il leader russo si è indirizzato al governo kirghiso, invitandolo a porre immediatamente fine alle persecuzioni contro Atambayev e a tutti gli altri oppositori in nome della stabilità politica di cui il paese ha più che mai bisogno. Al tempo stesso, ha incoraggiato l’intero paese a dar prova di coesione stringendosi attorno al presidente eletto ed evitando quindi dissensi e contestazioni. Un messaggio moderato, dunque, che assolve alla duplice funzione di spalleggiare l’alleato di sempre Atambayev e reiterare la sua vicinanza al governo legittimo presieduto da Jeenbekov.

Ancora una volta, una vicenda apparentemente circoscritta alla cooperazione sino-centroasiatica richiede l’intervento della Russia di Putin, mentre quest’ultimo assume il ruolo di garante e – per certi versi – di pacificatore. Inoltre, se è vero che i recenti scandali mettono in guardia dalle pratiche commerciali cinesi e rivelano la gravità della rete di corruzione attiva nell’ex repubblica sovietica, sono altrettanto eloquenti sull’uso che, di questi tempi, viene fatto della lotta alla corruzione, sempre più intesa come arma politica e strumento di persecuzione degli oppositori, piuttosto che come principio universale di buon governo.

Di Federica Di Sario*

**Federica Di Sario, classe ’93. Laureata in Relazioni Internazionali presso l’Università di Macerata e l’Istituto Mgimo di Mosca, ha lavorato dapprima come addetta stampa a Parigi per poi unirsi alla Delegazione UE in Armenia. Dopo una breve esperienza nel giornalismo economico, che l’ha condotta alla scoperta del Perù e del Mozambico, Federica è tornata in Francia, dove si occupa di fenomeni migratori, Unione Europea e spazio post-sovietico. È co-fondatrice del podcast francofono Un Martien Dans La Ville attraverso il quale indaga i processi di integrazione nelle realtà urbane.