“Jihadismo famigliare” in Indonesia

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Un duplice attacco rilancia l’allarme terrore in Indonesia. Agli attentati hanno partecipato interi nuclei familiari, un’inquietante novità per il Paese a maggioranza musulmana più popoloso al mondo. Dove cresce il timore per il ritorno dei combattenti jihadisti dal medio oriente.


Tra domenica 14 e lunedì 15 maggio l’allarme terrorismo islamico è tornato a manifestarsi in Indonesia, considerata da alcuni anni un’eccezione virtuosa tra i Paesi a maggioranza musulmana. Gli attacchi hanno colpito la città di Surabaya, la seconda più popolosa dell’arcipelago, centrando tre chiese cristiane nella giornata di domenica e un checkpoint della polizia nella giornata di lunedì, con un bilancio confermato di almeno 40 feriti e 18 vittime, compresi gli attentatori.

In entrambi i casi si è trattato di attacchi suicidi in cui gli attentatori si sono avvicinati agli obiettivi nascondendo delle cinture esplosive sotto i vestiti, prendendo deliberatamente di mira ora luoghi di culto pieni di civili, ora una stazione di polizia, mentre l’agenzia di stampa di Isis, Aamaq, ne rivendicava presto la paternità.

Ma quanto avvenuto pochi giorni fa nel primo Paese per popolazione di fede musulmana al mondo presenta delle peculiarità inedite circa le modalità d’attacco predilette da Isis o da gruppi terroristici simpatizzanti del Califfato, evidenziando un coinvolgimento attivo di interi gruppi familiari trasformati in suicide bombers.

Una prima famiglia composta da padre, madre, due figli maschi e due figlie femmine — di soli nove e dodici anni — si era suddivisa le tre chiese obiettivo, mentre una seconda famiglia composta da cinque persone ha tentato di sfondare il posto di blocco a bordo di due motociclette. Nel secondo attacco la figlia minore della coppia, di otto anni, è sopravvissuta all’esplosione e mentre scriviamo è ricoverata in condizioni critiche.

Secondo gli inquirenti indonesiani, non solo le due famiglie si conoscevano ma ci sarebbe stata anche una terza famiglia di terroristi pronta a entrare in azione con esplosivi artigianali detonati inavvertitamente in un appartamento di Sidoarjo, nei pressi di Surabaya.

Le tre famiglie erano membri del gruppo Jamaah Ansharut Daulah (Jad), una sorta di organizzazione ombrello fondata nel 2015 che, affiliandosi a Isis, ha riunito gran parte delle organizzazioni estremiste islamiche attive nell’arcipelago, in particolare attirando i membri della più nota Jemaah Islamiyah, responsabile dell’attentato a Bali del 2002 dove morirono più di 200 persone.

Jad è guidata dal leader spirituale Aman Abdurrahman che, seppur in carcere, in Indonesia rimane la personalità di riferimento per chiunque sostenga il terrorismo atomizzato e transnazionale promosso da Isis.

Tra i membri di Jad — che nel 2016 misero l’organizzazione sulla mappa del terrorismo internazionale architettando un attacco nel centro di Jakarta rivendicato da Isis, il primo nel sudest asiatico — fino ad oggi si sono contate sempre persone perfettamente sovrapponibili all’identikit del jihadista standard: maschio e giovane. Il coinvolgimento diretto di interi nuclei familiari in azioni suicide , in questo senso, è un elemento profondamente preoccupante che potrebbe segnare l’attecchire, in Indonesia, di aspetti ideologici fino a questo momento mai riscontrati.

Sidney Jones, direttrice dell’Institute for Policy Analysis of Conflict di Jakarta e tra le maggiori esperte di terrorismo islamico nell’area, in un intervento pubblicato dal portale del Lowy Institute scrive: “All’apice dell’influenza di Jemaah Islamiyah, appena prima delle bombe di Bali, le famiglie erano impegnate nella causa ma solo i maschi adulti venivano considerati dei guerrieri. Uomini di Jemaah Islamiyah sposavano le sorelle o le figlie di altri membri di Jemaah Islamiyah, o sceglievano mogli provenienti da scuole di Jemaah Islamiyah, dove alle ragazze venivano inculcati i valori dell’organizzazione. Le donne servivano come madri, insegnanti, corriere e, talvolta, come responsabili degli affari ma quasi mai come combattenti. […] Ma, fin dall’inizio, Isis è stata una questione famigliare. Il califfato deliberatamente incoraggiava intere famiglie a emigrare in Siria così che i padri potessero combattere, le madri riprodursi, insegnare o curare i feriti, e i bambini crescere in uno Stato Islamico puro. […] Isis è riuscito a trasformare il concetto di jihad in una questione famigliare, assegnando a ciascuno un ruolo. Le donne erano “leonesse”, i bambini “cuccioli”. A tutti veniva dato un senso di essere in missione”.

Mercoledì 16 maggio, a sottolineare il rischio emulazione del terrore nel Paese, un altro gruppo di terroristi ha attaccato armato di spade una stazione di polizia nella provincia di Riau, nella parte occidentale dell’isola di Sumatra. I quattro attentatori sono stati uccisi dagli agenti e un quinto è stato arrestato. Anche questa volta, attraverso l’agenzia Aamaq, Isis ha rivendicato l’attentato: circostanza su cui gli inquirenti ora indagheranno per escludere l’ipotesi di “appropriazione indebita di attentato”, operazione che la comunicazione di Isis in passato non ha disdegnato.

Il presidente indonesiano Joko Jokowi Widodo ha condannato la sequenza di attacchi definendola «barbarica» e «vigliacca», promettendo di far passare al più presto una controversa legge antiterrorismo da anni bloccata in parlamento. La legge darebbe molto più potere agli organi di sicurezza nazionali, dando il via libera ad arresti preventivi per chi è sospettato di terrorismo con detenzioni, senza necessità di formulare accuse in tribunale, fino a sei mesi. I detrattori della norma hanno evidenziato il rischio di utilizzo della nuova legge in contrasto col rispetto dei diritti umani.

Widodo a più riprese aveva sollevato la necessità di una norma simile per contrastare il ritorno di militanti indonesiani già attivi in medioriente e ora di rientro in patria, un tema intorno al quale si alimentano le paure di un generale raggruppamento delle ostilità di matrice islamica nel sudest asiatico, dopo la sconfitta subita da Isis nei territori che controllava in Siria e Iraq.

Tale ipotesi, che coinvolgerebbe anche il rinnovato attivismo jihadista nelle Filippine meridionali, merita di essere valutata e approfondita seppur non sia ancora chiaro agli esperti quanti e quali legami effettivi colleghino le cellule del sudest asiatico con l’eminenza grigia di Isis, ammesso che ancora esista.

Certo è che qualcosa in Indonesia si sta muovendo e, considerando che il Paese andrà a elezioni nel 2019, cercare di capire e fermare questo processo di destabilizzazione della più grande democrazia pluriconfessionale del sudest asiatico dovrebbe essere in cima alle priorità della comunità internazionale.

di Matto Miavaldi

[Pubblicato su Eastwest]