Il 12 luglio scorso duemila persone si sono riversate sulle strade di Jiangmen nella provincia del Guangdong. Hanno chiesto alle autorità locali di abbandonare il progetto di un impianto nucleare da oltre 4 miliardi e mezzo di euro. E le autorità hanno ceduto. Vittoria nimby o di una nuova e più consapevole classe media? Le autorità di Jiangmen, nella provincia cinese del Guangdong, hanno annunciato formalmente che il progetto per la costruzione di uno stabilimento per la lavorazione dell’uranio da 37 miliardi di Rmb (oltre 4 miliardi e mezzo di euro) sarà abbandonato. L’hanno fatto attraverso un documento ufficiale, dopo che una folla di duemila persone aveva marciato per la terza volta fino agli uffici del governo municipale il 12 luglio.
Se la cancellazione fosse effettiva, il precedente sarebbe poco meno che clamoroso. Si tratterebbe infatti della prima volta che le pressioni della piazza inducono le autorità cinesi a rinunciare a un progetto nucleare.
C’è anche un aspetto profondamente politico. I manifestanti “no-nukes” non si sono infatti fidati delle iniziali assicurazioni a voce, in spregio palese non solo della parola, ma dell’autorità stessa, dei funzionari locali.
Ci avevano provato il segretario del Partito Liu Hai e il sindaco Peng Guomei a placare la folla: “Sono qui per promettere a tutti che il governo di Jiangmen ha formalmente cestinato il progetto, un documento ufficiale sarà diffuso molto presto”, ha detto Liu ai manifestanti, esortandoli a tornare a casa. Ma quelli non hanno mollato, sostenendo che i due fossero “di profilo troppo basso” per offrire garanzie su un progetto di portata nazionale.
La folla se ne è andata solo dopo che il vicesindaco Huang Yue-sheng è arrivato e ha letto il comunicato ad alta voce. Il documento è stato poi pubblicato sul sito web del governo e su una bacheca fuori dal palazzo della municipalità. Ora la promessa è “nero su bianco”.
Giusto una settimana fa, il Global Times se ne era uscito con un editoriale che giudicava le proteste di piazza “uno strumento politico sorpassato” (in realtà si riferiva alle vicende egiziane) ed ecco che l’establishment cinese si trova a fare i conti in casa sua con una folla inferocita che non abbandona la strada finché non ottiene risposte convincenti.
La manifestazione di mille persone – a cui se ne sono aggiunte altre mille lungo il percorso – ha marciato verso la sede del governo, scandendo slogan come “Vogliamo bambini sani!”, “No Nukes!” e “No Pil!”. Quest’ultimo slogan, in particolare, sembra rilevare un salto di qualità nella consapevolezza collettiva: la crescita a ogni costo, quella per cui negli ultimi trent’anni la Cina ha sacrificato l’ambiente, non sembra più la priorità dei cinesi. O, almeno, di quelli che hanno protestato a Jiangmen.
È il trionfo dei nimby secondo caratteristiche cinesi, la versione locale del ceto medio globale che, raggiunto un “moderato benessere” (la promessa della leadership di Pechino a tutti i sudditi del Celeste Impero), non vuole vederselo rovinato da avvelenamento alimentare, particelle sottili accumulate nei polmoni e, appunto, scorie radioattive nel giardino di casa.
La middle-class prodotta dal boom cinese protesta contro il modello da “fabbrica del mondo” che ha generato il boom stesso. Non è più sostenibile e loro cercano una nuova qualità della vita. Per il governo è un problema molto più grave delle ricorrenti proteste contadine contro le requisizioni di terre, perché questo ceto medio emergente e vociante è il blocco sociale su cui ha fondato il proprio consenso.
È anche un brutto colpo per la credibilità dei funzionari locali. I manifestanti molto semplicemente, non si sono fidati delle loro parole. Come è possibile – si sono chiesti – che questi personaggi semi-ininfluenti e perlopiù corrotti riescano a bloccare il progetto di un parco industriale che occuperà 229 ettari e che produrrà metà del carburante destinato alle centrali atomiche sparse in tutta la Cina?
“Le autorità non rinuncerebbero mai a un progetto così grande”, ha detto al South China Morning Post un manifestante che ha promesso di continuare a combattere finché l’impianto de lavorazione dell’uranio non “esce dal delta del fiume delle Perle”. “Abbiamo paura che lo sposteranno da qualche altra parte del delta, di nascosto”.
Il progetto dell’impianto è della China National Nuclear Corporation e del China Guangdong Nuclear Power Group, e si inserisce nel nuovo impulso dato all’atomo come alternativa “pulita” all’energia fossile, di fronte alla crescente domanda interna. Il governo di Jiangmen aveva precedentemente descritto lo stabilimento come una “vetrina asiatica per il trattamento del combustibile nucleare e la produzione delle relative attrezzature”.
Dopo avere presentato il progetto il 4 luglio, le autorità sono state bersagliate dalle proteste e nel giro di pochi giorni hanno quindi precipitosamente annunciato la sospensione del progetto. Ma questo non ha fatto che aumentare la sfiducia collettiva: “Non possiamo credere che il nostro governo sia improvvisamente diventato così efficiente”, ha detto un manifestante. “È impossibile che i funzionari prendano una decisione così importante in un giorno. Sappiamo bene che tutti i dipartimenti governativi ci mettono almeno una settimana per risolvere anche il più piccolo problema”. È la nemesi dei governi locali e delle loro pratiche. Di un modo di amministrare.
Ora, il documento ufficiale strappato “dal basso”, appare come una pietra miliare. Un altro manifestante spiega: “Potremo utilizzare questo documento come garanzia affinché le autorità si attengano a quanto promesso”.
La cancellazione del progetto arriva due mesi dopo analoghe proteste che hanno costretto le autorità di Kunming – capoluogo della provincia sud-occidentale dello Yunnan – a rivedere i piani per un impianto petrolchimico. Un anno fa, invece, la lotta dei residenti aveva indotto i funzionari della provincia del Sichuan a rinunciare a un impianto di trasformazione dei metalli del valore di 1,64 miliardi dollari. Esiti simili hanno avuto negli ultimi anni le proteste contro grandi progetti industriali in Liaoning e Jiangsu, così come a Shanghai.
[Scritto per Lettera43; foto credits: scmp.com]