Sono 55 le minoranze etniche riconosciute dal governo cinese, 80 milioni di persone distribuite su un terzo del territorio nazionale. Ognuna di esse è depositaria di un’eredità linguistica e culturale estremamente varia e diversa da quella han, il gruppo etnico dominante. L’istruzione bilingue per i gruppi di etnia non han rientra nel contesto più generale dell’orientamento del governo verso le minoranze e riflette la scelta di una società multiculturale che rispetti le differenze e un modello standardizzato in cui lingua e cultura cinesi fungano da catalizzatore per tutti gli altri gruppi.
Dalla fondazione della repubblica agli anni ’80, al di là della retorica di governo che celebrava eguaglianza e fratellanza tra i gruppi, le minoranze sono state emarginate e relegate in posizione subalterna nella società cinese. L’istruzione scolastica, ispirata ai principi di conformità, stabilità e assimilazione, ha evitato di prendere in considerazione qualsiasi approccio pluralista che potesse minare la stabilità e istigare rivendicazioni indipendentiste.
Dagli anni ’80 il governo ha fatto passi importanti per promuovere e tutelare il pluralismo linguistico attraverso speciali misure adottate nelle regioni autonome, con l’obiettivo di migliorare le relazioni con le minoranze e favorire la loro integrazione nella nazione. Nelle aree a statuto autonomo, a maggiore concentrazione di minoranze, è in teoria garantita la possibilità di frequentare almeno il ciclo di scuola elementare nella lingua del gruppo ma nella pratica spesso l’insegnamento in cinese è prevalente.
In genere, i quadri han mostrano scarso rispetto per la cultura locale, reputando inutile lo studio della seconda lingua o temendo il consolidamento dell’identità di gruppo, potenziale minaccia alla stabilità: in base a considerazioni di questo tipo, è a loro delegato il potere di imporre l’impiego esclusivo del cinese nelle scuole. Questo dimostra quanto le decisioni prese dalle autorità locali possano risultare in provvedimenti di segno opposto a quanto sancito a livello centrale: paradossalmente, autonomo significa stretto controllo dell’amministrazione locale e minore tutela da parte di quella centrale.
In Tibet, ad esempio, il buddhismo ha svolto una funzione organizzativa primaria in campo gnoseologico, permeando tutte le branche dello scibile: nei testi buddhisti è infatti racchiuso l’universo delle conoscenze tibetane di grammatica, logica, medicina, astronomia. Per secoli i monasteri buddhisti sono stati i centri propulsori della vita culturale tibetana, unici luoghi di trasmissione del sapere. In assenza di istituzioni scolastiche pubbliche, l’istruzione era demandata ai monasteri ed era fortemente elitaria. Dopo l’annessione alla Repubblica Popolare Cinese nel 1950, la situazione è radicalmente cambiata: le attività religiose sono rigidamente controllate dal governo, i monasteri hanno perso la loro egemonia culturale e si è diffuso il sistema scolastico in vigore nel resto del Paese.
L’impostazione e gli obiettivi del sistema scolastico nazionale tralasciano del tutto la specificità culturale tibetana e costituiscono una minaccia alla sua stessa sopravvivenza. L’eredità religiosa, strettamente legata all’identità, alla lingua e alla cultura tibetana, è completamente esclusa dall’istruzione scolastica, negando ai bambini l’opportunità di maturare consapevolezza delle proprie radici culturali.
Inoltre, le condizioni carenti delle infrastrutture, gli insegnanti poco qualificati, la discontinuità nella frequenza scolastica e la difficoltà dei trasporti in molte zone tibetane spesso non consentono di garantire neanche un’istruzione di base. In tale contesto, il bilinguismo diventa quasi un’utopia: nella maggior parte dei casi i bambini non imparano bene nessuna delle due lingue.