Un’attivista di Greenpeace India è stata bloccata all’aeroporto di New Delhi prima che potesse recarsi nel Regno Unito a testimoniare circa le minacce e la corruzione che girano attorno al progetto di una miniera di carbone in Madhya Pradesh. "Agisce contro gli interessi nazionali", spiega il governo indiano, mostrando il lato repressivo della più grande democrazia del mondo.
Priya Pillai, attivista di Greenpeace nata e residente in India, l’11 gennaio scorso si presenta in aeroporto a New Delhi, provvista di visto valido per il Regno Unito, passaporto indiano valido, regolare biglietto aereo: era stata invitata da un gruppo interparlamentare britannico a parlare della Mahan Forest – 1000 kmq, tra le più antiche foreste di «sal» in Asia – e delle comunità contadine e tribali che dal 2006 si oppongono al progetto di apertura di una miniera di carbone proprio all’interno della foresta nel distretto di Singrauli, confine orientale del Madhya Pradesh.
Al check-in dicono a Pillai che qualcosa non va, il computer dice che non può partire. Risalendo la parete impermeabile della burocrazia aeroportuale indiana, palleggiata da funzionario a funzionario, stanzino per stanzino, mentre il suo aereo già vola verso Londra, l’attivista riesce a ottenere uno stralcio di informazione: la sua partenza era stata bloccata per «motivi di sicurezza nazionale».
Torniamo indietro di qualche anno. Siamo nel 2006 e il governo federale guidato dall’Indian National Congress (Inc) mette all’asta una serie di giacimenti di carbone sparsi su tutto il territorio indiano, accordandoli via via al miglior offerente. Tra questi la joint venture formata da Essar – multinazionale con sede nel Regno Unito – e Hindalco – controllata dal gruppo indiano Birla – si aggiudica il lotto nella foresta di Mahan.
Fondano la Mahan Coal Ltd. (Mcl), con l’intenzione di realizzare una miniera di carbone i cui proventi andranno per il 60 per cento a Essar, il resto a Hindalco, due compagnie che in zona dispongono già di centrali elettriche attive, in necessità cronica di nuovo combustibile per alimentare la locomotiva del progresso indiana, per oltre il 60 per cento dipendente da carbone.
I progetti di sviluppo di Mcl, assieme all’entusiasmo del governo locale del Madhya Pradesh, si scontrano però con la legge federale indiana Forests Rights Act (2006), che in sostanza obbliga i vincitori dell’asta a richiedere il permesso del consiglio dei villaggi locali (gram sabha) prima di iniziare a sfruttare le risorse naturali presenti sul territorio: occorre quindi accordarsi, definire le compensazioni e gli indennizzi a vita di tutti coloro che, con la realizzazione della miniera, perderanno terreni, alberi e colture, loro unica fonte di sostentamento.
Le trattative sono complesse e il lobbying operato ai più alti livelli della piramide governativa indiana, declinato alla realtà rurale di Singrauli risulta non altrettanto efficace. C’è chi non vuole lasciare la propria terra, che non si fida dei futuri indennizzi – ancora da definire – , chi invece non ha nulla da recriminare: bisogna andare ai voti.
Il «referendum» si svolge nel marzo del 2013, mentre alcun gruppi di protesta si riuniscono sotto l’ombrello di Greenpeace, opponendosi ad una miniera che avrebbe comportato l’abbattimento di centinaia di migliaia di alberi, due villaggi, 14mila persone ricollocate «altrove», con effetti devastanti sulla biodiversità della foresta che ospita, tra gli altri, leopardi, tigri ed elefanti.
Mcl porta alle autorità del Madhya Pradesh un documento contenente le firme di 1125 abitanti dell’area interessata, ma Greenpeace e gli abitanti dei villaggi locali smascherano la truffa: al gram sabha, dicono, erano presenti solo in 184 e di quelle firme almeno 9 sono nomi di persone decedute, certificato di morte alla mano.
Un secondo referendum, nell’agosto del 2014, viene cancellato per il trasferimento del sovrintendente governativo, mentre Greenpeace denunciava episodi di minacce, mazzette a funzionari locali, voti comprati con denaro o alcool. Pillai, in particolare, racconta di un volantino firmato da lei in cui, a nome di Greenpeace, invitava i contadini locali a manifestazioni violente contro Mcl. Documento che Pillai dice di non aver mai scritto.
Nel frattempo Essar e Hindalco continuano a premere per il via libera del progetto minerario da 3,2 miliardi di dollari, che andrebbe ad alimentare le centrali elettriche e di alluminio nella zona. Più si aspetta, più soldi si perdono.
Pillai avrebbe dovuto raccontare questa storia di fronte ai parlamentari britannici, cosa che ha comunque fatto via Skype, aggirando la limitazione della libertà imposta dal governo. Ricorrendo in sede legale, il 14 febbraio scorso i legali di Pillai hanno appreso davanti al collegio dell’Alta Corte di New Delhi che il nome della loro assistita era stato inserito in una «black list» redatta dai servizi segreti indiani per bloccare alla frontiera cittadini indiani sospettati di attività «contro la sicurezza nazionale».
L’Additional Solicitor General Sanjay Jain (il «pubblico ministero» che rappresenta lo Stato indiano) ha spiegato alla Corte che Pillai «aveva intenzione di andare a testimoniare circa le presunte violazioni dei diritti dei tribali nella foresta di Mahan», un’iniziativa che avrebbe intralciato il percorso di modernizzazione del Paese incarnato, al momento, dalle politiche ultracapitaliste del primo ministro Narendra Modi.
Citando stralci del memorandum presentato dal Ministero degli Esteri alla Corte, Jain ha spiegato che le autorità indiane temono che «il parlamento del Regno Unito possa utilizzare le deposizioni di Priya Pillai per stilare un rapporto contro l’India, mettendo il Paese a rischio di sanzioni…a differenza dell’Onu, i rapporti di istituzioni come il parlamento americano, quello britannico e quello europeo non danno la possibilità al governo indiano di controbattere, risultando pesantemente sbilanciati contro il paese oggetto del rapporto». Pillai, secondo il rappresentate del governo federale indiano, è una «doodh mein makhi»: letteralmente, una mosca nel latte, una «guastafeste» che agisce contro gli interessi indiani.
Incredibilmente, il Ministero degli Esteri indiano prosegue spiegando: «Questi stessi strumenti sono stati usati recentemente contro Iran, Russia e Corea del Nord, paesi che hanno registrato una battuta d’arresto nelle percentuali di crescita, con effetto deleterio al benessere e alla felicità dei propri cittadini».
Niente di nuovo sotto il sole. Solo qualche mese fa, un rapporto dei servizi indiani filtrato sulla stampa descriveva le Organizzazioni non governative straniere attive sul territorio indiano – Greenpeace, ActionAid e Amnesty in particolare – come strumenti di soft power al soldo occidentale, utilizzate dalle lobby straniere per impedire lo sviluppo tecnologico e infrastrutturale dell’India.
Una teoria del complotto che sostiene, assieme ad un ritrovato nazionalismo religioso hindu, l’impianto teorico del Modi-pensiero: il paese ha bisogno dei fondi stranieri per crescere ma, contemporaneamente, viene ostacolato con mezzi leciti e illeciti dalla stessa comunità internazionale, che nega all’India un posto in prima fila tra i Grandi della Terra.
Per questo, il margine di tolleranza del dissenso «all’indiana» – sit in, scioperi della fame, manifestazioni quasi mai violente – è molto alto: garantisce il diritto democratico della protesta, a patto che rimanga quanto più inefficace possibile, aggirabile coi metodi poco ortodossi della «democrazia reale» di un paese dove i panni sporchi – crimini contro ambiente, minoranze etniche e religiose, donne, lavoratori – si lavano categoricamente in casa.
Quando però si tenta la via dell’internazionalizzazione del dissenso, chiamando in causa organi extra indiani come nel caso di Greenpeace e Pillai, la più grande democrazia della Terra ricorre a pratiche repressive e restrittive del tutto arbitrarie, nella salvaguardia del progetto di una nuova Bharat Mata, Madre India, moderna, efficiente, potente e rispettata. E sempre meno democratica.
[Pubblicato in versione ridotta da il manifesto; foto credit: yahoo.com]