India – Sulla pena capitale per lo stupro di Delhi

In by Gabriele Battaglia

Quattro condanne a morte. Questa la sentenza di primo grado per i quattro imputati per lo stupro e l’omicidio di Nirbhaya. La violenza ha scosso l’opinione pubblica indiana. Ma la pena capitale non tocca alla radice il nodo della condizione femminile nel paese. Condannati a morte gli stupratori di Delhi

Nel primo pomeriggio di venerdì il giudice della Session court (la Corte di primo grado nel sistema giuridico indiano) di New Delhi ha condannato alla pena capitale i quattro imputati accusati dello stupro e dell’omicidio di Jyoti Singh Pandey, la studentessa 23enne nota in India come Nirbhaya, “l’impavida”. Non si tratta di una sentenza definitiva – ci sono altri due gradi di giudizio e la difesa ha già annunciato che presenterà ricorso – ma per l’India questa è la prima risposta della legge all’emergenza stupri nel paese.

Il crimine risale al 16 dicembre scorso, quando sei uomini – tra cui un minorenne – aggredirono la ragazza e il suo compagno nel quartiere di Munirka, nella parte sud di Delhi, mentre tornavano a casa dopo una serata al cinema. Intorno alle 9 di sera i due ragazzi sono saliti su un autobus locale guidato da Ram Singh, 32 anni: picchiarono e immobilizzarono il ragazzo, per poi violentare ripetutamente Jyoti per oltre un’ora, torturandola con una sbarra di ferro fino a lacerare gli organi interni per poi abbandonarla in fin di vita sul ciglio della strada. Pochi giorni dopo Nirbhaya moriva in un ospedale di Singapore, che si era offerto di provare a compiere il miracolo di salvarle la vita.

L’episodio ha scatenato un’ira e indignazione senza precedenti in un paese dove la violenza di genere rappresenta una delle emergenze alla quale pare non si riesca a trovare rimedio. Il 24 dicembre migliaia di giovani hanno assediato la residenza presidenziale di Rashtrapati Bhavan chiedendo che una delegazione di studenti fosse ricevuta dal presidente Mukherjee e invocando l’intervento del governo per garantire maggiore sicurezza alle ragazze indiane. La manifestazione spontanea comprendeva diverse anime delle nuove generazioni di indiani – da chi invocava la pena di morte a chi metteva in discussione la condizione generale della donna nel paese – dando vita a una mobilitazione di massa inedita nella storia recente indiana.

Una presa di posizione dei giovani, senza alcuna bandiera politica, che si è subito infranta contro le cariche della polizia di Delhi, sostituita entro la fine dell’anno dalle marce guidate dai partiti dell’opposizione. Da quel momento, per la stampa e le telecamere che hanno seguito incessantemente gli sviluppi del caso, lo stupro del 16 dicembre è diventata una questione politica, di sicurezza, rimandando a data da destinarsi il dibattito sulle radici maschiliste e discriminatorie della società indiana.

Rispondendo alle critiche di inadempienza provenienti dalla piazza, l’esecutivo e le autorità di polizia avevano assicurato una sentenza in tempi brevi e, questa volta, la promessa è stata mantenuta. In poco più di otto mesi i sei imputati sono stati catturati, interrogati, messi agli arresti e condannati in primo grado, un record per il letargico sistema giuridico indiano.

Ram Singh, il più vecchio del gruppo, non è mai nemmeno arrivato alla sbarra: chiuso nel carcere di massima sicurezza di Tihar, vicino a Delhi, dopo aver confessato il crimine lo scorso 11 marzo è morto nella sua cella, impiccandosi al ventilatore.

L’unico minorenne all’epoca dei fatti – 17 anni – è stato condannato lo scorso 31 agosto alla pena massima prevista dal codice indiano per i minori, 3 anni in riformatorio. Dalle ricostruzioni dell’aggressione pare sia stato proprio lui ad accanirsi sul corpo della vittima con la spranga di ferro, brutalità per la quale la famiglia della vittima ha esortato i giudici ad applicare ugualmente la pena di morte chiedendo una modifica lampo del codice, mai arrivata.

Il giudice Yogesh Khanna, pronunciando la sentenza nei confronti di Mukesh Singh, 29 anni, Vinay Sharma, 20 anni, Pawan Gupta, 19 anni, e Akshay Takhur, 28 anni, ha spiegato che i crimini – 13 capi d’imputazione tra cui stupro, omicidio, sequestro di persona, banditismo e sodomia – sono stati commessi in maniera estremamente "brutale, grottesca, diabolica, rivoltante e vile", provocando l’"estrema indignazione" della società, rientrando nella categoria di “rarest of the rare”, i casi eccezionali punibili in India con la pena di morte.

"In tempi in cui crimini orribili contro le donne sono sempre più rampanti – ha continuato il giudice – la legge non può girare gli occhi dall’altra parte, non può esimersi dalla necessità di dare un forte segnale deterrente a chi si macchia di questi crimini".

Fuori dall’aula centinaia di persone hanno festeggiato la condanna a morte dei quattro, mostrando cartelli con scritto “Hang them all”, impiccateli tutti. La madre di Jyoti, ai microfoni di Ndtv, ha dichiarato: "Posso tornare a respirare, sono sollevata e siamo finalmente in pace. Hanno avuto la punizione che meritavano".

Una netta minoranza sui social network esprime però il proprio dissenso. Shoma Chaudhury, managing editor del magazine Tehelka, ha sintetizzato in un tweet: "Dovremmo essere un paese che abolisce la pena di morte e dovrebbe esserci solo una soglia per le società civilizzate: non uccidere. La morte non è un deterrente".

Analisi – Non è una questione di inasprimento delle leggi, ma di mentalità machista

I festeggiamenti e l’appagamento da vendetta compiuta fuori dall’aula del tribunale di Delhi, se possibile, vanno ad aggiungere angoscia ai contorni dello stupro di Nirbhaya, crimine che ha riacceso i riflettori sull’emergenza della violenza di genere in India.

Ma la società indiana, scossa al punto da ritrovare l’indignazione di fronte a stupri che rientrano ormai nell’ordinaria scaletta delle cronache locali, fatica a focalizzare l’attenzione sulle ragioni culturali e sociali alla base della violenza contro le donne. Infame tradizione che , con buona pace dei boia e dei loro sostenitori, è destinata a continuare.

Il valore delle condanne a morte inflitte in primo grado ai quattro imputati ha sicuramente una portata storica, ma occorre fare attenzione alla manipolazione dei fatti operata ad uso e consumo di un’opinione pubblica arrivata al verdetto all’apice della frustrazione. In questi otto mesi e mezzo l’India non ha fatto altro che attendere un segnale di intransigenza da parte della legge, una pena esemplare che potesse mostrare la determinazione di un popolo nell’affrontare a muso duro una bestialità del maschio considerata inevitabile, insanabile se non con la repressione e la paura, l’effetto deterrente della gogna.

Ecco il primo inganno: la condanna a morte non è stata impartita per lo stupro, bensì per l’insieme di crimini – tra cui l’omicidio e la tortura – di cui si sono macchiati gli imputati. La richiesta popolare di un inasprimento delle pene è rimasta inevasa dalla Corte Suprema, ufficialmente per i tempi lunghi dell’iter legislativo, e il patibolo temporaneo – mancano ancora due gradi di giudizio – offre alla folla un sollievo immediato, si prende tempo.

Inoltre, la morte dei quattro invocata dall’opinione pubblica e dalla politica – stavolta in modo compatto – non trova corrispondenza in casi di analoga atrocità che hanno coinvolto, ad esempio, le forze militari speciali nei villaggi del nord-est, o nell’agghiacciante caso di Soni Sori, attivista del Chhattisgarh sospettata di maoismo, che nel 2011 venne violentata dalla polizia mentre era in stato di fermo: i medici di Calcutta che la visitarono dopo lo stupro scoprirono che i poliziotti le avevano inserito nella vagina e nel retto delle pietre.

La sentenza è in linea con la risposta dell’esecutivo, che da quest’anno a Delhi ha messo fuorilegge le tendine nei bus pubblici, annunciando un aumento delle telecamere a circuito chiuso e dei pattugliamenti nella città: tutte attività di contrasto al crimine che non intaccano la natura maschilista e segregazionista della società indiana.

Le parole dell’avvocato difensore AP Singh, riportate da India Today, esemplificano lo stallo del dibattito: "Perché la gente prima non controlla le proprie figlie? Brucerei viva mia figlia se facesse sesso prima del matrimonio e andasse in giro di notte col suo ragazzo". Estremizzazione di una mentalità ampiamente diffusa nel paese che colpevolizza l’emancipazione delle donne trasformandola in tentazione, rafforzando la consuetudine che limita la libertà personale femminile per preservarne la “decenza”.

La scrittrice e giornalista Annie Zaidi, durante un’intervista, ha sintetizzato l’approccio che le donne indiane dovrebbero adottare nella lotta contro le molestie: "Bisogna iniziare a smettere di sentirsi in colpa o spaventate. Ci è stato insegnato che dovevamo prenderci la responsabilità di qualcosa che non è per niente sotto il nostro controllo. Di coprire i nostri corpi; di evitare di attirare l’attenzione attraverso le nostre espressioni, parole, sguardi; di non uscire dopo che fa buio; di non uscire sole; di non parlare con gli sconosciuti; di restare buone se siamo molestate, perché altrimenti potremmo subire effettiva violenza fisica. Ma tutto ciò non cambia niente."

Un altro dato interessante è stato sollevato dalla scrittrice Nilanjana Roy, in un editoriale pubblicato lo scorso 20 dicembre sul quotidiano The Hindu. Secondo le statistiche governative del 2011, nel 94 per cento dei casi di stupro denunciati in India lo stupratore conosce la vittima, nel 32 per cento è un amico o un vicino, segno che il pericolo di violenza è altissimo anche “a casa”, dove le figlie e le mogli dovrebbero sentirsi al sicuro.

L’introduzione della pena di morte per gli stupri potrebbe addirittura peggiorare le cose. In alcune comunità rurali, come in Uttar Pradesh, non è raro che gli stupratori decidano di bruciare vive le proprie vittime, per evitare il rischio di riconoscimento davanti alle autorità. Una conseguenza terrificante che porterebbe con sé il tanto auspicato effetto deterrente della gogna di stato.

[Scritto per il Manifesto. Foto credit: Linkiesta.it]