In Cina e Asia – Quanto è alto l’Everest?

In Notizie Brevi by Alessandra Colarizi

Precisamente 8.848,86 metri. E’ l’altezza dell’Everest secondo gli ultimi rilevamenti effettuati in tandem da Nepal e Cina. Per anni i due vicini asiatici hanno calcolato l’altezza della montagna più alta del mondo sulla base di parametri diversi. Kathmandu ha sempre dato per buona la misurazione condotta dall’India nel 1954 che, conteggiando anche la calotta di ghiaccio sulla sommità, ha stimato la vetta più alta a 8.848 metri. Secondo Pechino, invece, nel 2005 il picco era 3,7 metri più basso. Il terremoto del 2015 e le pressioni cinesi (dicono fonti nepalesi) hanno reso necessari nuovi accertamenti. L’intesa per la realizzazione di esplorazioni congiunte era stata raggiunta lo scorso anno in occasione della visita di Xi Jinping nel Paese delle Nevi. Il significato dell’annuncio non ha solo implicazioni scientifiche. “L’Everest è il simbolo dell’amicizia eterna tra Cina e Nepal”, ha spiegato il ministro degli Esteri nepalese Pradeep Kumar Gyawali. Un’amicizia che a Pechino torna comoda considerate le nuove tensioni lungo il confine sino-indiano e i chiari di luna con il vicino Bhutan, dove secondo la stampa indiana la Cina si starebbe appropriando silenziosamente di porzioni di territorio fino ad oggi incontestato. [fonte GT, Guardian]

Crollano i finanziamenti cinesi all’estero

Tra rallentamento economico e accuse di neocolonialismo, da un paio di anni si parla di un graduale ridimensionamento degli investimenti cinesi all’estero. Una ricerca dell’Università di Boston ha quantificato la riduzione: i prestiti erogati dalla China Development Bank e della Export-Import Bank of China – i due maggiori concessori di credito nell’ambito della Belt and Road – sono crollati dai 75 miliardi di dollari del 2016 ai soli 4 miliardi dell’anno scorso. Segno di un rimpatrio della spesa ma anche di una drastica selezione dei paesi destinatari. Stando allo studio, il 60% dei finanziamenti è finito in appena 10 paesi. A guidare la classifica è il Venezuela, a cui è andato oltre il 12,5% della somma complessiva, seguito da Pakistan, Russia e Angola. I progetti finanziati sono concentrati principalmente nel settore dei trasporti e delle infrastrutture minerarie ed energetiche. Degli 858 prestiti individuati dai ricercatori, 124 sono finiti in aree protette di livello nazionale, 261 all’interno di habitat critici e 133 sono stati dirottati nelle terre delle popolazioni indigene. [fonte FT]

La Cina finanzierà il governo iracheno in cambio di petrolio

L’Iraq è pronto a firmare un contratto multimiliardario con la China ZhenHua Oil Co, sussidiaria del colosso cinese della difesa Norinco, per un piano di salvataggio che permetterà al governo di Bagdad di rimpolpare la casse statali in cambio di forniture di petrolio a lungo termine. Seguendo un modello collaudato in Venezuela, Angola ed Ecuador, ZhenHua acquisterà 4 milioni di barili al mese, ovvero circa 130.000 al giorno. L’accordo durerà cinque anni e durante il primo il pagamento sarà anticipato. Secondo i calcoli di Bloomberg, ai prezzi correnti le forniture valgono 2 miliardi di dollari. Mentre la pandemia ha colpito tutti i principali produttori di petrolio, l’Iraq, dove il greggio rappresenta quasi tutte le entrate del governo, è in una posizione peggiore di altri. Insegnanti e dipendenti pubblici sono senza salario e le proteste aumentano. L’accordo per il pagamento anticipato – il primo siglato da Bagdad – è uno dei più grandi nella storia recente, secondo per importo solo ai 10 miliardi di dollari raccolti nel 2013 dalla società statale russa Rosneft. [fonte Bloomberg]

Un nuovo leak fa luce sulle detenzioni nel Xinjiang

“Essere generalmente inaffidabili” o “nati dopo gli anni ’80” è quanto basta per finire nei centri di rieducazione dello Xinjiang. Lo rivela l’ultimo rapporto di Human Right Watch compilato sulla base di una lista di 2000 detenuti uiguri della prefettura di Aksu. Il nuovo leak – che segue la pubblicazione di un database di Karakax – fa luce sui criteri adottati dalle autorità per identificare gli elementi radicalizzati. In tutti i casi citati a svolgere un ruolo cruciale è la piattaforma integrata per le operazioni congiunte (IJOP), un sistema di analisi predittiva che tiene traccia delle reti personali degli individui, della loro attività online e della vita quotidiana. Tra le “trasgressioni” rientrano la giovane età così come l’avere rapporti con parenti in “paesi sensibili”. Ma ad alcuni dei nomi è associata la semplice dicitura “segnalati da IJOP”. Segno che la scelta spesso viene lasciata nelle mani della tecnologia. A questo proposito uno studio condiviso da IPVM con il Washington Post rivela un coinvolgimento diretto di Huawei nello sviluppo di telecamere in grado di distinguere l’etnia di una persona sulla base del riconoscimento facciale. [fonte HRW, Guardian, WaPo]

Hong Kong: HSBC blocca i conti legati alle proteste 

Sono sempre di più gli hongkonghesi a trasferire i propri risparmi all’estero. Un trend cominciato lo scorso anno all’apice delle proteste pro-democrazia e velocizzato la scorsa settimana dal congelamento dei conti bancari dell’attivista Ted Hui – fuggito in Gran Bretagna – e dei suoi familiari. La stessa misura è stata applicata un paio di giorni fa a una chiesa locale impegnata a sostenere i manifestanti. L’accusa in entrambi i casi è di “riciclaggio di denaro” ma il contesto suggerisce inevitabilmente motivazioni politiche. Tanto più che l’istituto di credito coinvolto è HSBC, il colosso londinese noto alle cronache per aver avallato l’introduzione della controversa legge sulla sicurezza nazionale. L’approccio duro di Pechino nella regione amministrativa speciale è stato accolto con favore dalla comunità d’affari dopo il caos dei mesi di proteste. Ma tra gli expat e i comuni cittadini cresce il timore che la perdita della vecchia autonomia finisca per rendere Hong Kong in tutto e per tutto una città cinese. Con le conseguenze del caso. Parte del suo status internazionale il Porto Profumato lo deve al laissez faire adottato in termini di circolazione dei capitali a fronte delle ferree restrizioni imposte nella mainland. Secondo Reuters, il timore che presto non sarà più così sta spingendo un numero crescente di persone – anche non politicamente attive – a convertire i propri averi in dollari nell’attesa di trovar loro una nuova collocazione oltremare. [fonte Reuters, Bloomberg]

China Files propone alle aziende italiane interessate alla Cina servizi di comunicazione quali: newsletter, aggiornamenti su specifici settori, oltre a progetti formativi e approfondimenti ad hoc. Contattaci a info@china-files.com