In Cina e Asia — Frana: continuano i soccorsi nel Sichuan

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La nostra rassegna quotidiana


Frana nel Sichuan: continuano i soccorsi tra le polemiche

Mentre il bilancio delle vittime della frana che ha colpito il Sichuan nel weekend è fermo a 10 morti accertati e circa una novantina di dispersi, circa un centinaio di famigliari ha incontrato le autorità per avere risposte sul futuro del villaggio di Xinmo e sulle sorti dei bambini rimasti orfani. Mentre 3000 soccorritori sono ancora all’opera tra le macerie, i residenti accusano il governo di “mentire” sullo stato delle operazioni. “Ci avevano detto che saremmo potuti tornare ieri mattina ma continuano a ritardare con ogni tipo di scuse. Ci avevano assicurato che un funzionario del governo centrale sarebbe venuto a trovarci”, ha dichiarato alla Reuters un uomo di mezza età, “ma dopo essersi fatto vedere non si è nemmeno degnato di parlarci”. Intanto la notizia della richiesta dell’evacuazione a reporter e soccorritori per un secondo allarme frana è stata rimossa dall’account twitter del Global Times.

Già colpita nel 2008 da un devastante terremoto, il Sichuan è una provincia ricca di dighe, fattore che aumenta esponenzialmente il rischio di pesanti ripercussioni sulla popolazione locale a seguito di alluvioni e altri eventi naturali di grande entità.

Diritti umani “con caratteristiche cinesi”

Giovedì il Human Rights Council delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione sul “contributo dello sviluppo ai diritti umani”, avvallando per la prima volta una tesi lungamente sostenuta da Pechino: ovvero che i diritti umani hanno un’accezione più ampia di quella normalmente utilizzata in Occidente per criticare la Cina.

Da molto tempo il gigante asiatico ostenta i progressi ottenuti nel processo di liberazione della popolazione cinese dallo stato di povertà, per respingere le critiche di quanti l’accusano di non proteggere i valori universali condivisi. La risoluzione, sponsorizzata in tandem con oltre 70 paesi, è stata salutata dalla stampa di Stato cinese. Sabato il People’s Daily ha osservato che “per molto tempo, il dibattito internazionale sui diritti è stato monopolizzato dai governi occidentali. Alcune persone provenienti dall’Occidente spesso usano la pretesa dei diritti umani per esportare i propri valori e intromettersi negli affari interni di altri paesi”. Il quotidiano continua asserendo che “l’inclusione del concetto di sviluppo come promotore dei diritti umani nel sistema internazionale dei diritti umani implica un grande cambiamento nel dibattito globale sui diritti umani”.

Il riconoscimento da parte dell’Onu, sbandierato da Pechino come una vittoria, accresce le preoccupazioni di quanti lamentano una progressiva sudditanza delle organizzazione internazionali agli interessi cinesi. Appena pochi giorni fa, la Grecia, destinataria di cospicui investimenti cinesi, ha esercitato il proprio potere di veto per bloccare una dichiarazione di condanna da parte dell’Unione europea contro lo stato dei diritti umani oltre la Muraglia.

Ombre cinesi sulle presidenziali mongole

Sono elezioni all’insegna del nazionalismo e della sinofobia quelle che si aprono quest’oggi in Mongolia. Negli scorsi giorni i candidati del Democratic Party e del Mongolian People’s Party sono stati oggetto di accuse per la loro presunta origine cinese. Sui social media mongoli è circolato un video ritraente la comunità immigrata cinese di Ulan Bator e alcuni tafferugli scaturiti con l’etnia locale. Di sottofondo una voce sentenzia che “molti cinesi sono stati espulsi dalla Mongolia decenni fa, ma oggi il Mongolian People’s Party ha perso i suoi valori e sta promuovendo un mezzocinese nelle elezioni”. L’accusa è stata respinta Mieybombo Enkhbold, che ha mostrato il proprio albero genealogico per attestare le proprie radici mongole. Qualcosa di simile lo ha fatto anche il candidato del Mongolian People’s Revolutionary Party.

Mentre gli esperti giudicano tale afflato nazionalistico senza precedenti nella storia elettorale del paese, la diatriba scattata sulla rete dimostra l’insofferenza rampante nei confronti dell’incombente vicino. La Mongolia da tempo persegue la “politica del terzo vicino” per non venire inglobato nella sfera cinese e russa. Tuttavia l’interesse di Pechino per la terra di Gengis Khan e le sue risorse naturali è cresciuto negli ultimi anni in riferimento al progetto per una nuova via della seta. A febbraio il governo cinese ha offerto aiuti finanziari per rimettere in sesto i conti di Ulan Bator, con la banca centrale cinese che estenderà una linea di swap in valuta per un valore di 15 miliardi di yuan. Il tutto dopo che il governo mongolo ha promesso di non aprire mai più le porte al Dalai Lama, una figura molto popolare nel paese a maggioranza buddhista.

C’è chi però ritiene che il fantasma cinese venga agitato dai candidati più che altro per distrarre la popolazione dai i più pressanti e incombenti problemi della vita di tutti i giorni.

Primo faccia faccia tra Modi e Trump

Sarà una visita dimessa quella di Narendra Modi a Washington. Quest’oggi il premier indiano incontrerà per la prima volta Donald Trump in quella che i funzionari americani hanno definito una “visita speciale”. Le premesse, tuttavia, sono ben diverse rispetto a quando Modi fu accolto alla Casa Bianca, in pompa magna, da Barack Obama nel 2014. All’epoca le due democrazia più grandi del mondo ambivano ad una partnership strategica in chiave anticinese. Oggi, tuttavia, la strada intrapresa da Washington e Delhi sembra convergere decisamente meno: il nuovo presidente statunitense non ha ancora chiarito la sua posizione nei confronti dei vecchi alleati asiatici, figuriamoci di quelli acquisiti in tempi più recenti. Nello specifico, il tycoon da una parte recrimina a Nuova Delhi l’implementazione di pratiche commerciali nocive per l’economia americana e vuole limitare il rilascio dei visti di lavoro, ampiamente utilizzato dal personale high tech indiano; dall’altra, accusa l’India di farsi promotrice dell’accordo di Parigi contro i cambiamenti climatici in cambio di ingenti aiuti esteri.

A complicare il quadro si aggiunge la variabile Cina. Mentre la diffidenza obamiana verso Pechino sembra aver ceduto il posto ad un maggior pragmatismo che vede i due giganti punzecchiarsi di tanto in tanto, salvo poi riaffermare il comune impegno sul versante nordcoreano, le relazioni tra Cina e India hanno invece vissuto un progressivo irrigidimento da quando Modi ha assunto la guida del secondo paese più popoloso al mondo.

Nonostante l’acquisto miliardario di armi “made in Usa”, la partnership strategica tra Delhi e Washington rimane in balia di molte incognite.

Alla sbarra businessman di Macao: aveva corrotto funzionari Onu

Si apre quest’oggi a Manhattan il processo all’imprenditore macaense Ng Lap Seng, accusato di aver corrotto diplomatici delle Nazioni unite per aggiudicarsi la costruzione di un centro conferenze a Macao. Secondo l’accusa, Ng — con l’aiuto di un funzionario dell’intelligence cinese — avrebbe pagato centinaia di migliaia di dollari in mazzette agli ambasciatori per Antigua e Barbuda e la Repubblica Domenicana affinché l’appalto venisse assegnato alla propria società di costruzioni, Sun Kian Ip Group. Il complesso sarebbe dovuta diventare la sede ufficiale per le attività organizzate dalla Cina sotto il cappello dell’Onu. L’avvocato dell’uomo ha rigettato tutte le accuse definendo il caso “politicamente motivato” per via dei timori del governo americano verso la crescente ingerenza cinese nelle organizzazioni internazionali.

Arrestato nel settembre 2015, Ng ha ottenuto i domiciliari su cauzione. Ex membro della Conferenza consultiva del popolo, il businessman pare abbia inoltre finanziato il Democratic National Committe, che negli anni ’90 era all’opera per assicurare la rielezione di Bill Clinton.

Bambini soldato: Tillerson vuole “assolvere” il Myanmar

Il segretario di stato americano Rex Tillerson sarebbe intenzionato a rimuovere il Myanmar e l’Iraq dalla lista dei paesi accusati di costringere i bambini a imbracciare le armi come soldati. Secondo la Reuters, la decisione, che sfida le raccomandazioni del Dipartimento di Stato e della diplomazia americana, sarebbe da leggere nell’ambito del pressing diplomatico messo in campo da Washington per isolare la Cina. Tillerson si sarebbe anche opposto all’inclusione dell’Afghanistan nella lista nera, a cui — in teoria — corrispondono sanzioni come l’esclusione da aiuti militari, formazione e vendita di armi statunitensi. La decisione stupisce ancora di più in quanto va contro quanto espresso dalle Nazioni Unite. Dal 2012 il governo birmano ha rilasciato 849 bambini soldato in base ad un accordo stipulato con l’Onu, sebbene l’utilizzo di minori -tanto nell’esercito quanto nelle truppe ribelli degli stati semi-autonomi — sono ancora motivo di apprensione tra le organizzazione internazionali per la difesa dei diritti umani.