In Cina e Asia — Apple e Google studiano la “cybersovranità” cinese

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La nostra rassegna quotidiana


Domenica, in apertura all’annuale World Internet Conference di Wuzhen, la Cina è tornata a difendere il concetto di “cybersovranità”, introdotto da Xi Jinping nel 2014, che conferisce a ciascun paese il diritto di regolamentare la propria rete internet. Avendo raggiunto pieno controllo del web nazionale con una nuova legge sulla cybersicurezza, ora Pechino si offre di aiutare la comunità internazionale a fare altrettanto. Ma non chiamiamola censura. Nonostante la necessità di normare i contenuti online, “lo sviluppo del cyberspazio cinese sta entrando in una corsia di sorpasso. . . Le porte della Cina diventeranno sempre più aperte”, ha affermato il capo della propaganda Huang Kunming leggendo una nota autografata del presidente Xi. La conferenza ha inoltre fatto da sfondo al debutto del nuovo ideologo del partito Wang Huining, nominato membro del comitato permanente lo scorso ottobre, che riprendendo il concetto a lui caro di autoritarismo statale ha enfatizzato il ruolo dirigista che il governo deve esercitare nello sviluppo tecnologico del paese. Soprannominato il “Davos dell’internet”, il forum di Wuzhen arriva a pochi giorni dall’accusa di corruzione dell’ex zar della Cyberspace Administration Lu Wei e ha visto per la prima volta la partecipazione di illustri ospiti stranieri quali il chief executive di Apple Tim Cook e il capo di Google Sundar Pichai. Rivolgendosi ai presenti, Cook, che è già al secondo viaggio oltre la Muraglia in due mesi, ha ricordato come Apple ha contribuito alla crescita economica del gigante asiatico facendo guadagnare agli sviluppatori cinesi quasi 17 miliardi di dollari attraverso la vendita di app.

Washington e Seul sfoggiano la loro potenza aerea

Sale la tensione nella penisola coreana con l’inizio delle esercitazioni aeree congiunte tra Washington e Seul, le più imponenti mai realizzate. Vigilant Ace — che proseguirà fino a venerdì — prevede infatti la partecipazione di 12.000 soldati americani e circa 230 velivoli, tra cui sei caccia F-22 Raptor e F-35. Secondo i media sudcoreani, potrebbero essere dispiegati anche bombardieri strategici supersonici B-1B Lancer. Le operazioni, seppur pianificate da tempo, arrivano a pochi giorni dal lancio del missile balistico intercontinentale Hwasong-15, in grado di colpire gli Stati Uniti in qualsiasi punto del loro territorio continentale. Nel weekend Pyongyang ha avvisato che le esercitazioni rischiano di “riacutizzare” la tensione. Per il Comitato della Corea del Nord per la pacifica riunificazione del Paese, Trump è un “pazzo” che sta spingendo “la situazione nella penisola coreana, già grave, sull’orlo della guerra nucleare”. Un’eventualità che ha già indotto il senatore repubblicano Lindsey Graham ha chiedere l’evacuazione dalla penisola delle famiglie del personale militare statunitense.

Pechino caccia i migranti: panico nell’e-commerce

La campagna di pulizia avviata da Pechino — dopo l’incendio del 18 novembre — contro la “popolazione low-end” (ovvero i migranti) sta creando non pochi problemi ai colossi dell’e-commerce cinese Alibaba e JD. Motivo? Innanzitutto, perché nel mettere in sicurezza gli edifici illegali della capitale cinese (spesso un po’ depositi, un po’ laboratori e un po’ abitazioni) le autorità stanno provvedendo a chiudere molti magazzini non in regola. In secondo luogo, perché quei cittadini di classe B non più benvenuti rappresentano il motore del settore logistico; i corriere che recapitano a casa pacchi e pasti a domicilio. Secondo un impiegato, SF Express, il più grande servizio logistico della Cina, ha già visto chiudere 20 dei suoi centri di distribuzione, circa un decimo del totale collocato a Pechino, mentre sei dei 50 colleghi si trovano costretti a dormire nei furgoni dell’azienda con una temperatura di -5° dopo che le loro abitazioni sono state demolite. Alibaba, che nell’ultimo rapporto ha citato la carenza di forza lavoro come un pericolo per il proprio business, ha annunciato che rinnoverà i dormitori dei suoi dipendenti per adeguarli agli standard richiesti dal governo. I disagi nelle consegne — che hanno visto il colosso ZTO ridurre le spedizioni giornaliere dalle tradizionali 100 alle 20 della scorsa settimana — proseguiranno per tutto il mese di dicembre, secondo fonti del settore. Le perdite ammontano a centinaia di milioni di renminbi.

Crisi rohingya: il web birmano si scaglia contro il papa

Ipocrita e Falso. Il giudizio dei netizen birmani nei confronti di papa Francesco — reduce da una lunga maratona in Myanmar e Bangladesh — è precipitato paurosamente da quando il santo padre ha deciso di rompere il silenzio sui “rohingya” una volta arrivato a Dacca. Mentre ancora in Birmania, la comunità cattolica locale, compreso il cardinale Bo, avevano convinto Bergoglio ad astenersi dall’utilizzare pubblicamente il termine “rohingya”, che le autorità di Naypyidaw ritengono descriva erroneamente un’etnia bengalese stabilitasi illegalmente nello stato Rakhine. Di ritorno in Vaticano, tuttavia, il papa ha lasciato intendere di aver sollevato la questione privatamente con Aung San Suu Kyi e i militari. Bergoglio ha inoltre raccontato la commozione provata nell’incontrare un gruppo di rohingya provenienti dai campi profughi del Bangladesh. “È come una lucertola il cui colore è cambiato a causa delle condizioni meteorologiche”, scrive su Facebook Aung Soe Lin commentando il voltafaccia del papa nella crisi dello stato Rakhine. “Più che un leader religioso dovrebbe fare il commerciante o l’intermediario considerato l’uso di parole differenti”, critica un altro. “Il Papa è una persona santa … ma qui (in Myanmar) ha detto una cosa mentre in un altro paese ne ha detta un’altra”, ha scritto l’utente di Facebook Ye Linn Maung,“se amasse davvero la verità dovrebbe sempre sostenere la stessa cosa.” La condotta del Santo Padre in Myanmar è stata oggetto di aspre critiche anche in Occidente, dove i gruppi per la difesa dei diritti umani auspicavano una ferma presa di posizione per mettere fine all’esodo degli sfollati musulmani verso i paesi limitrofi sulla scia delle violenze innescate dalla caccia dell’esercito agli autori degli attacchi armati di agosto.

L’addio alla carriera di Harumafuji e la crisi del sumo

Il 29 novembre Harumafuji, uno dei più grandi campioni di sumo, è stato costretto ad abbandonare la carriera per aver aggredito un collega in un bar. “Mi scuso dal più profondo del mio cuore” ha dichiarato, inchinandosi profondamente per quasi 30 secondi. Il gesto cerimonioso ha lo scopo di riparare alla perdita d’immagine causata allo sport nazionale del Sol Levante dopo una lunga serie di episodi antisportivi. Tutto è cominciato una decina di anni fa, quando un apprendista di 17 anni è morto dopo che i suoi anziani lo avevano picchiato con una bottiglia di birra e una mazza da baseball. Poi è stata la volta degli incontri truccati e delle scommesse illegali con l’implicazione nientemeno che della yakuza, la mafia giapponese. Ma forse il segno più lampante del declino sta nell’estinzione di lottatori nipponici. Infatti, sebbene il sumo sia nato in Giappone circa 2000 anni fa, l’arcipelago stenta a sfornare campioni. Prima che Harumafuji si dimettesse, tre dei principali quattro lottatori provenivano in realtà dalla Mongolia. E a spedire nuove leve verso l’arcipelago ormai sono sopratutto Europa dell’Est, Russia, Hawaii e le Samoa.