Il tramonto dell’Occidente digitale? (Terza parte)

In Cina, Innovazione e Business by Redazione

[PRIMA E SECONDA PARTE]

Quattro.

Esistono delle alternative? Esiste una soluzione che tenga conto delle priorità strategiche degli USA e anche del funzionamento – della reputazione potremmo aggiungere – del capitalismo americano?

Possono, insomma, gli Stati Uniti limitarsi a colpire una sola techno-corporation lasciando intatte le altre? Possono, in buona sostanza, utilizzare lo smembramento di una sola di esse come pena esemplare per le altre? E anche come sanzione da esibire, a fronte della domanda di regolamentazione che in tutto il mondo occidentale è venuta fuori negli ultimi due anni.

Se guardiamo agli spiriti animali del capitalismo, nel loro dispiegarsi nell’ecosistema digitale, questi spiriti hanno veramente generato un catalogo piuttosto ampio di danni alle società occidentali, a molte democrazie, comprese quelle di Stati Uniti e Gran Bretagna. Hanno contestualmente prodotto una rivoluzione copernicana nello stesso capitalismo, realizzando  immense ricchezze. Adesso per qualcuno sembra venuto il momento di colpire le aziende che questa rivoluzione copernicana hanno stimolato e, in buona parte, prodotto.

Come abbiamo già sottolineato, e com’è evidente, le techno-corporation hanno creato una enorme quantità di problemi in casa, negli Stati Uniti, e fuori, sicuramente in un’Europa che con tutte le debolezze del momento continua a essere alleata degli Stati Uniti. E così la politica estera che esce da una parte, la Cina, rientra impunemente da un’altra, il Vecchio Continente. Che proprio l’Europa, alleato riluttante degli Stati Uniti a guida trumpiana, abbia sofferto importanti problemi di funzionamento della democrazia e della sua fragile architettura istituzionale, anche per colpa di Facebook e Google può essere considerato un dato di fatto. Una sanzione di qualunque tipo alle techno-corporation verrebbe letta sulla sponda orientale dell’Atlantico come un risarcimento, una forma di compensazione, per le svariate tribolazioni post Brexit, per l’incendio populista divampato in molti paesi e per altri temi di minore importanza, ma non per questo meno sensibili, come l’esplosione del fenomeno no-vax, legati alla manipolazione degli algoritmi che ha inquinato il dibattito pubblico.

Più in generale, oggi, qualunque governo nazionale non può fare a meno di prevedere nella propria agenda politica il tema di come rapportarsi a queste creature: che tipo di risposte fornire quando intervengono a squassare un mercato o un settore, come tassarle o come sopravvivere al loro modo di impiegare e reclutare personale. Si pensi alla mobilità o al mercato degli affitti, al commercio al dettaglio. Queste aziende sono figlie di una impostazione economica, di processi produttivi, e soprattutto di una cultura aziendale ispirata alle più grandi e famose 4 sorelle. La decisione di colpirne una sola verrebbe letta dalla platea della tante aziende della tech-economy come un monito, e anche come un invito, difficile da declinare, a sedersi alla tavola dei regolatori per trovare soluzioni condivise nel momento in cui decidono di colonizzare digitalmente un settore di mercato.

La pena esemplare – fuori da ogni considerazione giuridica – sarebbe una risposta decisa ai dubbi e agli incubi che agitano i sonni di tanti governanti nel mondo occidentale.

L’immagine che una sola di esse venga colpita ovviamente stona, ma potrebbe rappresentare una soluzione praticabile in un’epoca in cui il realismo è assurto a paradigma politico e delle relazioni internazionali. E lo scalpo da esibire potrebbe essere quello della più criticata, cioè Facebook. Operazione da concludersi prima delle elezioni del 2020 con la speranza – malriposta – che un’azione di questo tipo possa evitare o limitare le interferenze esterne.

Cinque.

La verità è che le democrazie sono organismi complessi, e lo sono ancora di più oggi di quanto non lo siano state in passato, a causa della globalizzazione che avrebbe reso il mondo, quasi tutto, uno spazio apparentemente sempre più piatto. Ciò che era valido quando si trattò di smembrare la Standard Oil o l’American Tobacco, o in tempi ancora più recenti l’AT&T, non è detto che valga oggi. Il mondo è davvero piatto nello spazio digitale occidentale.

Non esistono protezionismi o barriere da innalzare, non c’è più tempo per negoziati da avviare, il primato globale del social network americano conquistato a suon di acquisizioni pesantissime da Zuckerberg è un dato di fatto, come lo è per le altre aziende della Silicon Valley. Ed è un fatto storico. Ma la storia spesso cambia verso: se in Cina non è possibile – pressoché per tutti – iscriversi a Facebook o a Instagram, in Europa o in America ciascuno di noi può iscriversi e utilizzare WeChat.

Nel digitale, come in ogni altra tecnologia, lo ricorda la legge di Metcalfe, le dimensioni contano. Ecco perché il social network più popolato avrà sempre la possibilità di scalzare i rivali e ridurli a reperti di archeologia digitale. Basta cercare su Google uno dei tanti mirabili, simpatici, e talvolta anche efficienti, social network pre-Facebook per ricordarlo: da Friendster a MySpace. Come sosteneva Eric Schimdt, a lungo presidente di Google, le piattaforme digitali sono sempre a un clic dall’estinzione, ecco perché (altra citazione di uno che conosceva bene l’universo della tecnologia, Andy Groove, fondatore della Intel) in questo mondo solo i paranoici sopravvivono.

Senza una paranoia, senza l’ossessione della crescita per società che hanno corso il rischio di non nascere nemmeno in assenza di finanziamenti, il rischio di estinzione è dietro l’angolo; lo è anche per un motore di ricerca, per una piattaforma di e-commerce o per l’affitto di appartamenti, figuriamoci per un social network.

Lo ripetiamo, le ultime performance di TikTok impensieriscono non poco l’ecosistema digitale nel suo complesso. I timori si leggono nei titoli di un quotidiano non qualunque, come il Wall Street Journal, che dedica sempre più spazio a TikTok, cui riconosce una seria strategia per dominare l’universo dei social network]. E un gruppo di senatori, sia democratici che repubblicani, avrebbero chiesto al Dipartimento del Tesoro se l’applicazione presenta profili di rischio per la sicurezza nazionale. Il pretesto sarebbero la censura da parte di TikTok dei video delle proteste di Hong Kong.

Certo il successo dell’applicazione potrebbe rappresentare un singolo exploit, oppure il segnale dell’arrivo di un cavallo di Troia da Pechino. L’elemento da non sottovalutare è che la strategia di marketing – dopo gli insuccessi di cui abbiamo detto, relativi ad Alibaba – finalmente funziona. Basti pensare che per raggiungere quota 500 milioni di utenti, l’applicazione ha speso 1 miliardo in pubblicità su una app rivale e cioè Snapchat. Il successo di TikTok indica un primo cambio di passo. La Cina non è più soltanto hardware, non è soltanto la fabbrica fisica della tecnologia, insomma non possiamo più considerarla la nazione che assembla gli iPhone e basta.

Quegli organismi complessi che sono le democrazie prevedono articolazioni che non hanno l’obbligo di tenere conto delle tante variabili di cui abbiamo detto fin qui. I procuratori pensano ad alcune di queste variabili, pensano soprattutto all’applicazione delle norme di legge, valutano i rischi per il mercato e per i consumatori laddove esistono posizioni di forza che stritolano il mercato.

Eppure oggi gli Stati Uniti, e quindi anche i tanti procuratori, paiono di fronte a un feroce dilemma: mantenere in vita il capitalismo e le sue vecchie regole, oppure fare un’eccezione clamorosa, anzi salvare questa eccezione clamorosa, per non perdere una guerra tecnologica con il rivale più ingombrante del nuovo mondo multipolare?

Potremmo applicare una variante dell’Effetto farfalla a questa fase del confronto tra Stati nazionali e techno-corporation (le meta-nazioni digitali), e chiederci se il battito d’ali di un procuratore di uno Stato qualunque influirà sulla supremazia tecnologica americana nel confronto con Pechino. Potremmo anche chiederci se un giudice qualunque si farà strumento di un processo storico inevitabile, quello del sorpasso cinese ai danni degli Stati Uniti in questo settore; o se smembrare le grandi aziende della Silicon Valley sia il passo necessario per la sopravvivenza del capitalismo per come lo abbiamo conosciuto.

Infine ancora occorre domandarsi se è ancora attuale questa affermazione e come possa oggi essere realizzata: «per tutto il corso della loro storia gli Stati Uniti sono stati spesso animati dalla convinzione che i loro ideali avessero un’importanza universale e che fosse necessario diffonderli». Se risulta ancora vera, questa affermazione è vera nella misura in cui quegli ideali sono stati diffusi anche attraverso un sapiente racconto del capitalismo, narrazione in cui si inscrive alla perfezione il big bang dell’universo digitale proprio nell’ultimo capitolo di questa storia.

Le techno-corporation conservano, rispetto alle concorrenti cinesi pochi vantaggi, per lo più di natura non tecnologica, su tutte la loro genesi californiana e la loro dimensione, e poi il modo di raccontarsi, il rapporto con Hollywood, la connessione con un ecosistema omogeneo, la relazione con le università, la finanza e i venture capital e, infine, il complesso militare industriale.

La controparte cinese ha fin qui invece enormi problemi a imporsi in uno spazio geopolitico e culturale che oltrepassa i confini della Repubblica Popolare, fa eccezione rumorosa – come già sottolineato – TikTok.

La differenza enorme sta, per le aziende californiane, nel considerare lo spazio digitale come uno spazio fisico i cui confini sono stati abbattuti e valicati; le controparti cinesi hanno fin qui valutato lo stesso spazio come un territorio difeso, protetto, recintato da qualcuno che non ha – apparentemente – nulla a che vedere con l’universo digitale, e cioè il governo di Pechino.

In ogni caso, sfogliando il Rapporto Internet Trend 2019, il predominio delle techno-corporation statunitensi, per valore di mercato, è ancora indiscusso: tra le prime 10 società quotate, ben 8 sono americane e solo due cinesi. Tra le prime 20 la proporzione cambia di poco: 14 sono aziende a stelle e strisce, 5 sono cinesi e una sola è giapponese.

Non sappiamo se la Cina abbia un interesse strategico coincidente con quello che vogliono tutelare i procuratori americani, fin qui non sembra; non sappiamo nemmeno se grazie agli effetti delle decisioni dei giudici americani, Pechino deciderà di espandersi, sfruttare la conseguente debolezza delle techno-corporation californiane e costruire un processo equivalente a quello del Belt and road nel web, di cui è difficile immaginare il tracciato e i protagonisti.

Ma come la nuova Via della Seta fisica sta riconfigurando la geopolitica globale e ridisegnando aree di influenza e commerci di una parte consistente del pianeta, siamo certi che, se dovesse prendere corpo una Digital belt and road, essa produrrà una riconfigurazione complessiva dello spazio digitale attuale dalle stesse caratteristiche.

Il grande dilemma che agita gli Stati Uniti, in realtà agita anche buona parte del mondo occidentale: l’esito di questo ennesimo conflitto tra governo americano e techno-corporation potrebbe mutare il panorama del web per come lo conosciamo oggi.

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Di Nicola Zamperini*

**Nicola Zamperini (@nicolazamperini), giornalista professionista, autore per Castelvecchi di Manuale di disobbedienza digitale, consulente di comunicazione digitale per imprese e istituzioni. Contatti: www.nicolazamperini.com