Il “motore di ricerca umano”

In by Simone

«Qualcuno pensa che sia qualcosa di simile a Google per via del nome, ma non lo è, chiariamoci: è un fenomeno sociale, una forma di azione collettiva». Sono le parole di Guobin Yang, professore universitario e autore di libri su internet e comunicazione. Sta parlando del motore di ricerca umano, una questione tutta cinese. E la prima cosa da sapere è che il motore di ricerca umano è reale. La seconda, che è vivo. La terza, che fa paura. Non è questione di essere un po’ propensi all’inquietudine o allo sconforto, né essere normalmente portati ad aumentare il peso di questioni che si possono dirimere con semplicità: il motore di ricerca umano fa paura, perché è complesso. E’ forte, potente e rumoroso, è oggetto di studio, di lavoro, di banalizzazioni e spiegazioni. E vittime, ricchi, poveri, buoni e cattivi. E carnefici, ricchi, poveri, buoni e cattivi. Sciacqua, sciaborda, scroscia, perché è come l’acqua che scorre impetuosa e fa danni e hai voglia a contare le macerie. A pensarci bene poi il motore di ricerca umano, poetico non lo è per niente. Fa paura, come il buio, ma non può ammantarsi di caratteristiche misteriose, di svolazzi romantici e interpretazioni spicce. Il motore di ricerca umano, siete tutti voi. E’ carne umana. Viva o morta: la paura dipende da che parte si sta. Da che parte decidete di stare.

Jiang Yan ha 31 anni. Vive a Pechino, ha lunghi capelli neri, in una foto la si vede guardare un punto imprecisato. Non c’è allegria in quello sguardo. E’ introversa e affida ad un blog on line i propri pensieri più profondi. Jiang, con il tempo, all’inquietudine sostituisce la sofferenza e il dolore: sulle pagine del blog prende corpo il tradimento del marito e una vita che non sembra cogliere tutta quella ricchezza che la Cina regala a piene mani. Jiang non è armonica, per niente. Nell’ottobre del 2007 chiude il blog. A dicembre si suicida. A qualcuno però la cosa non torna. Un’amica della vittima pubblica on line anche il diario di Jiang: lo mette in bella mostra su un un sito internet. In quelle pagine c’è tutta la sofferenza della ragazza per il tradimento del marito. Daqi.com e tianya.com, due tra i portali più popolari in Cina, ne parlano e aprono forum di discussione che alimentano la ricerca e le testimonianze. Che finiscono tutte su un sito. Comincia una vera e propria elaborazione delle informazioni sul marito della suicida. Si dice abbia una nuova amante. Si dice non sia andato ai funerali della moglie. Il motore di ricerca umano è in moto. Si aggiungono le informazioni: si scopre il nome del marito, Wang Fei, l’indirizzo di casa e anche quello del lavoro. E il numero di cellulare. Si scoprono, nel senso che vengono pubblicati on line: lo richiede il motore di ricerca umana. Ha bisogno di carne.

Perché c’è anche il gusto per il rischio: «per alcuni – sostiene il professor Guobin – la partecipazione ad un motore di ricerca umano è una forma di onore, di giustizia. Non è raro che in molti casi vengano anche hackerate mail o altro per ottenere informazioni da sfoggiare al resto della comunità, come un eroe d’altri tempi». E dall’on line si passa all’off line: scritte minatorie davanti all’ufficio, telefonate deliranti ad ogni orario. Per i ricercatori di informazioni, lui è il colpevole della morte di Jiang. Wang Fei è solo, contro tutti. Tiene duro, finché un giorno, al lavoro, scopre la novità: licenziato. In due mesi, tutto è precipitato. Poi, a marzo Wang Fei denuncia i siti che hanno rivelato le sue informazioni e con essi la persecuzione di cui è stato vittima. Per la prima volta, una corte cinese affronta il tema del motore di ricerca umano e della violenza via internet. La donna che pubblicò i diari di Jiang è condannata a pagare 800 euro. In questo caso, si dirà, il motore di ricerca umano ha raccolto delazioni, sospetti, ire, frustrazioni, a danno di un povero cristo, Wang Fei.

Ma il meccanismo non ha colori, simpatie, preferenze: lo sanno bene a Wengan, nella regione del Guizhou nel sud est cinese, quando la povera Li Shufen 16 anni, viene trovata morta in un fiume. La polizia sembra avere fretta di chiudere il caso, archiviato come suicidio. Su internet però non tutti la pensano così: inizia una ricerca umana, perché secondo qualcuno si è trattato di omicidio. Si scandagliano informazioni nella vita reale e vengono poi messe a disposizione su internet. Parte un’investigazione alternativa, una contro inchiesta, si direbbe, visto che on line finiscono anche perizie, documenti riservati. A partecipare sono in tanti, perché di mezzo c’è il figlio di un noto e potente politico locale. Sarebbe stato il ragazzo, amico della vittima, a uccidere la giovane, come dimostrerebbero le testimonianze, tante, e la raffazzonata e rapida procedura di polizia. Qualcuno ha paura. La notizia si diffonde su internet e il motore di ricerca umano diventa ingestibile. Trasborda, perché la rete non basta più: cinquecento studenti vanno a protestare davanti all’ufficio di polizia. Gli uomini in divisa li fronteggiano malamente, caricando e picchiando la piccola folla. Si sparge la notizia che ci sia un morto. La reazione è clamorosa: secondo le agenzie circa trenta mila persone imbestialite si riversano per strada. Le modalità giungono da twitter e altri social network: lo scontro con la polizia è lungo, circa sette ore, le conseguenze varie, un centinaio le persone ferite, oltre cento edifici e quaranta macchine date alle fiamme. Al termine di quelle giornate di tensioni, la polizia riapre il caso della giovane ragazza.

Chi ha paura, dunque, del motore di ricerca umano? Il fenomeno ormai è sdoganato: ne parlano le agenzie di stampa governative, le riviste, i tribunali, qualcuno ha provato perfino a spiegarlo con un lungometraggio. Sezionare il motore di ricerca umano, significa tuffarsi nei meandri più interni della Cina contemporanea. Intanto: si tratta di un fenomeno unico, solo cinese. E per raccogliere le sue dinamiche variegate in un termine solo, si è inventata anche una nuova parola: Renrou Sousuo Yinqing, la cui traduzione inglese è Manpower Search Engine. Più comunemente però i cinesi usano solo una parte della definizione, renrou, ovvero carne umana. Da qui il nome ufficiale in inglese: human flesh search. In generale: di fronte a un comportamento considerato immorale, ingiusto, i cittadini cinesi reagiscono rendendolo pubblico sul web, portando avanti investigazioni private che possono concludersi con il linciaggio di una persona normale, o con la scoperta di una nefandezza dei potenti. «Si tratta di un gruppo di persone che usano internet per cercare e condividere informazioni su una persona: questa è la definizione», dice sicura Fauna, una delle fondatrici di chinasmack.com, sito che raccoglie «le storie più piccanti della rete cinese». Il fenomeno è controverso, contraddittorio e dai mille volti. Non poteva nascere e svilupparsi che in Cina. Il renrou ha anche una sua origine, naturalmente. E’ partito tutto dalla lugubre infermiera che mise on line un video in cui uccideva sadicamente un gattino. Un orrore davvero. Non mostrava la sua faccia, ma gli utenti del web, sdegnati, non si sono fatti pregare e attraverso un’analisi dettagliata di ogni piccolo frammento del video, sono risaliti a lei. L’ultimo caso clamoroso di renrou, invece, riguarda un politico. Si tratta di Zhou Jiugeng, un alto ufficiale di Nanchino. Analizzando le foto apparse sul web di una conferenza cui Zhou partecipava, molti citizens hanno notato alcuni particolari, come il pacchetto di sigarette costose e l’orologio prezioso. Due beni che un funzionario di Partito non dovrebbe avere, per rispetto del Popolo. Parte la ricerca, sul sito finiscono altre informazioni e conferme. Le agenzie cinesi parlano di “cigarette gate”. Il tipo finisce nel mezzo di un bel disastro politico e si dimette.

Ora, il fenomeno del motore di ricerca umano è studiato, analizzato e conteso. Secondo i sinologi c’è una spiegazione classica. Ad essere condannati sono comportamenti che non sono considerati morali: non si uccide un gatto, non si tradisce la moglie, non si sfoggia ricchezza quando si dovrebbe servire umilmente il popolo. Il mercato, per fortuna, non si compra anche la storia. Il Confucianesimo ad esempio, è stato riabilitato dall’odierna classe politica cinese, dopo che Mao lo aveva abbattuto insieme ad altri vecchiumi. Ma ha sempre resistito nell’anima dei cinesi. E il confucianesimo si basa sulla condotta morale dell’individuo, perché attraverso di essa si raggiunge la gestione armonica della società. L’uomo di animo nobile quindi agisce in modo morale ed etico tramite una naturale inclinazione che lo porta ad essere giusto. «Di solito con il renrou si cerca giustizia – dice Fauna, il cui sito spesso ospita casi celebri di ricerca umana- ma il più delle volte credo sia rivolto contro gli abusi del potere. Poi chiaramente ci finiscono in mezzo persone che non c’entrano niente, ma tutto è mosso da un senso di giustizia». L’inclinazione al senso di giustizia è un imperativo categorico tanto che tutta la tradizione confuciana classica si basa sul ren, il cui carattere è composto dal radicale di uomo accanto al numero due: l’uomo realizza se stesso nella corretta empatia con l’altro. E i cinesi queste cose le hanno nel sangue.

Non solo Confucio, perché non basta. La Cina oggi è un’astronave a tutta velocità, in cui il web ha semplicemente alzato i giri del motore. Anche se per i cinesi, tutto questo, in fondo, non è così strano. E allora vengono in mente le punizioni pubbliche e le delazioni della Rivoluzione culturale e quella tendenza, palpabile anche oggi, della totale mancanza di privacy in Cina. Fauna ha una risposta anche a questo: «per noi cinesi è una cosa non certo sconvolgente. Da sempre abbiamo un afflato più collettivo di altre civiltà, per svariate ragioni. L’uno si confronta con la moltitudine, sempre. Forse agli stranieri il fenomeno interessa di più perché hanno più fiducia nelle autorità e nella polizia. O perché le società occidentali sono più individualiste. O perché renrou è un nome cinese». Scherzando, si centra un punto non da poco, verrebbe quasi da parlare di linciaggio on line con caratteristiche cinesi. Altri invece la mettono su un piano più intrigante: il renrou altro non è che una nuova e moderna forma di attivismo.

E’ il caso del professor Guobin Yang, che sulla questione ha scritto anche un libro, The Power of the Internet in China: Citizen Activism Online (Columbia University Press, 2009): «sono due i fattori dell’esistenza del fenomeno: in primo luogo una dilagante e interessante vita on line, compresa quella di community molto vaste: queste sono i network principali del renrou. In secondo luogo ci sono le condizioni sociali in cui prevale l’ingiustizia, la corruzione, un senso di mancanza di potere nei confronti delle autorità. In questo senso è una forma di azione collettiva e una dimostrazione dei risentimenti e delle frustrazioni dell’odierna società cinese». Viene da chiedersi come questo possa accadere sull’internet cinese così controllato e censurato: «questa è una piccola grande verità e spesso si nega questa contraddizione, prosegue il professore, perché la verità è che i navigatori cinesi non sono tonti. Ogni volta si inventano qualcosa per evitare la censura o abbassarne gli effetti. E questo è un altro elemento che chiarisce come le motivazioni del renrou siano spesso rivolte contro il potere».
E il potere, a suo modo, sta cercando di rispondere. Zhu Zhigang, membro del Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo, confessò tempo fa al China Daily la sua preoccupazione per il fenomeno e per la mancanza di tutela della privacy all’interno della rete. Così il Partito e il Governo hanno provveduto, con la produzione di un regolamento per la protezione e la sicurezza dei sistemi computerizzati, entrato in vigore il primo giugno. Secondo la direttiva «non è permesso fornire o rendere pubbliche informazioni e dati personali, è illegale intercettare e manomettere l’indirizzo di posta elettronica, è illegale falsificare nomi e trasmettere notizie personali». Oggi dunque, per i giudici e per la legge cinese, il renrou fa paura e come tale è un crimine. E c’è da giurarci che i cinesi sappiano, che proprio con il motore di ricerca umano si potrebbe perfino cambiare il giudice. E subito dopo, la legge.

[Pubblicato su Diario, novembre 2009]

[foto di Laia Gordi i Vila]