Siamo ufficialmente abitanti del villaggio di Bollophur, periferia di Santiniketan, periferia di Bolpur, a tre ore da Calcutta, Bengala Occidentale. Questi sono i nostri diari.
Ieri sera mi sono imbattuto in questa trascrizione del discorso fatto da David Foster Wallace ai laureati del Kenyon College, in Ohio. Prima di suicidarsi.
Se avete tempo leggetelo. Pur ripetendo una serie di cose già dette e ridette – lo ammette pure lui, nel discorso – parla di come sia importante essere sempre presenti mentalmente in ogni reazione che si ha davanti a tutto quello che non funziona intorno a noi, quello che ci fa schifo, "ma io l’avrei saputo fare meglio", "ma perché non fanno così". Contestualizzare, capire perché queste cose succedono e se abbiamo ragione ad incazzarci così tanto quando lo facciamo.
Wallace consiglia di farlo "per non spararsi in testa prima dei 30, 50 anni" – lui non ce l’ha fatta, e si è impiccato a 46 anni.
Io cercherò di ricordarmelo, ma sarà durissima, per il resto del tempo che vivrò qui in India da residente. Per non farmi venire un esaurimento nervoso o finire su tutti i giornali per aver fatto una strage.
C’è da dire che in quasi un anno nel subcontinente qualche progresso, inconsapevolmente, l’ho fatto.
Ricordo i primi giri in motorino qui a Shantiniketan. Avevamo comprato una specie di vespa di seconda mano messa a punto da un meccanico della zona per un prezzo che ci sembrava un affare. Il giorno dopo si è fermata in mezzo ad una strada sterrata nel bel mezzo di un acquazzone estivo, perdendo benzina dal serbatoio. L’abbiamo riportata a riparare altre due volte prima di renderci conto di essere stati fregati sia sul prezzo(il doppio del valore di mercato corrente), sia sul particolare "è di seconda mano", dopo che cinque o sei persone ci hanno fermato facendoci i complimenti perché "hey, quella vespa era mia!".
Le prime volte che andavamo in motorino mi incazzavo tantissimo perché la gente continuava a farmi il clacson senza motivo apparente. Io li insultavo in italiano, loro ridevano.
Un giorno ho messo la freccia per girare e quasi non andavo addosso a uno che mi stava tagliando la strada. Lui mi insultava in bengali, io in italiano.
Poi ho scoperto che il clacson qui lo usano come abbellimento dell’andatura, per segnalare la loro presenza non in occasione di sorpasso o di pericolo, ma più ampiamente: la loro presenza nell’universo. Suonare il clacson significa "ci sono anche io!".
E che le frecce non si usano, ma prima di girare bisogna mettere la mano. Anche in macchina.
Adesso non mi arrabbio quasi più, uso il clacson appena vedo qualcosa che si muove a dieci metri dal mio motorino, metto le mani per girare. Non insulto più nessuno in italiano, almeno mentre guido.
In questo periodo monsonico la nuova sfida è rassegnarsi alla precarietà di qualsiasi servizio che noi, cresciuti in occidente, siamo abituati a dare per scontato, garantito.
Il telefono ad esempio: da quando ha iniziato a piovere salta la linea in continuazione, la connessione è lentissima, lavorare diventa impossibile. I primi giorni tempestavamo l’ufficio del telefono di chiamate minatorie, lamentandoci per il disservizio e che paghiamo un fisso mensile per un collegamento internet che – se ci va bene – saremo in grado di utilizzare per una settimana al mese.
Abbiamo aperto la porta a tecnici rozzi e maleducati che ci tiravano giù dal letto la mattina per far finta di controllare i cavi, spiegandoci che loro avevano fatto il possibile ed era colpa di un altro ufficio. All’altro ufficio ci rimandavano indietro al punto di partenza, che la materia non era di loro competenza. Un ping pong infinito.
Oggi sappiamo che non c’è niente da fare, ci siamo abituati alla linea che, puntualmente, cade ogni sera verso le 18:30 e riprende verso le 11 di mattina. La nostra giornata lavorativa la plasmiamo attorno ai blackout telefonici.
E’ come trovarsi bloccati in ascensore. In occidente rimani al buio per un po’, che tanto qualcuno poi arriva e ti tira fuori.
In India o non prendi l’ascensore, oppure devi essere pronto ad arredarlo.