Hu Jie. La mostra che non si mostra

In by Gabriele Battaglia

Il 18 novembre era in programma a Tianjin presso il TEDA Contemporary Art Museum un evento artistico che sarebbe stato di enorme rilievo. La mostra (Let there be light di Hu Jie) è stata interrotta dalle forze dell’ordine a soli tre giorni dall’inizio, dopo che la pubblicità era stata impedita, la scelta dei quadri modificata e i partecipanti pedinati e intercettati. China Files vi regala una gallery della mostra (per gentile concessione dell’autore).

Hu Jie di formazione è un pittore, ma è conosciuto soprattutto come documentarista. La sua opera pittorica si è concentrata in questi anni sui soggetti che hanno più toccato la sua sensibilità di uomo nel rapporto con il ruolo di regista. E’ un cinese barbuto di poco meno di cinquant’anni con gli occhi insolitamente profondi.

Famoso per documentari come Searching for Lin Zhao’s soul o Though I am gone, ha una produzione davvero nutrita di oltre trenta titoli. I temi a lui cari sono più che altro storici, sebbene non abbia mai perso il contatto con la rappresentazione antropologica critica della società odierna. Quindi tra le sue storie hanno trovato posto i martiri della Rivoluzione Culturale (My mother Wang Peiying), i minatori (Remote mountains), i reduci dei campi di rieducazione (The East Wind state farm) come pure le mogli comprate dal sud della Cina (Folk song on the plain).

Ma, come si diceva, Hu Jie è anche un pittore. Ciò che è capace di riversare nei quadri è altro rispetto all’urgenza comunicativa che hanno i suoi documentari, imprescindibili nella loro filologia quanto nella volontà di conservare la memoria dei fatti. Le sue ricerche, così da vicino esposte alla sofferenza, così appieno coinvolte nelle testimonianze, generano silenziosamente fantasmi nella sua testa.

I dipinti sono uno sfogo catartico attraverso il quale egli visualizza questo tormento e se ne libera rendendolo arte. L’indagine infatti di cui Hu Jie si è fatto carico in tutti questi anni lo ha portato necessariamente a scoprire un vaso di Pandora di paure, dolori e inspiegabili ingiustizie che lui è il primo a dover fronteggiare.

Ecco perché la sua produzione artistica, sia essa ad olio, in tecnica tradizionale cinese o xilografica, è spesso espressione di questa tortura, è visualizzazione di quel passato che così da vicino ha trattato attraverso le testimonianze della gente. Ogni singolo quadro si fa portavoce immaginifico di una storia avvinghiata con vigore a quella che è l’esperienza del documentario, in una dimensione crossmediale, magari involontaria, ma di smisurata modernità. Si tratta di racconti, si tratta di rappresentazioni astratte, si tratta di giochi simbolici in cui è totale la libertà di pensiero.

Un produttore illuminato, Ma Huidong, e un curatore di spicco del panorama cinese, Li Xianting, hanno raccolto la sfida di radunare tutte queste delicate sensazioni e dare all’Hu Jie pittore uno spazio espositivo in cui la sua opera su tela potesse essere compresa e confrontata con il lavoro dell’immagine in movimento.

Tanta della sua produzione giovanile è andata persa, in parte bruciata, in parte mai prodotta per sottostare a divieti e richieste censorie che lo hanno in principio coinvolto. Ma quella che si è salvata, più la bellezza di una serie (incompleta) di 16 xilografie prodotte appositamente per l’esposizione, hanno trovato posto a Tianjin nella mostra Let there be light, 要有光. Una mostra che è durata quattro giorni.

Appena si è saputo che Hu Jie e tutta la sua scomoda produzione sarebbero arrivati a Tianjin, la galleria è diventata improvvisamente di enorme interesse per le forze dell’ordine. Visite continue hanno preceduto l’apertura che doveva avvenire il 18 novembre, fino a quando il sabato precedente il vernissage, un gruppo nutrito di ufficiali si è parcheggiato nelle sale. Hanno aspettato notte fonda per “concordare” con Ma Huidong la chiusura della mostra a soli 3 giorni dall’apertura e l’impossibilità di esporre alcun contributo video. La prima personale di Hu Jie vedeva già la sua fine.

Alcuni l’hanno potuta apprezzare, ma non molti. Persino la pubblicità era stata vietata. Ma vogliamo ricordare la potenza visiva di quelle produzioni e menzionare il fatto che dopo aver conquistato il primato di primo documentarista storico cinese, Hu Jie è stato anche il primo ad avere rappresentato gli orrori della Grande Carestia. Una visione personale del dramma: scavato su tavolette e stampato in bianco e nero (e quale miglior tecnica di un chiaro scuro che non lascia sfumature né fraintendimenti). Qua e là spunta la figura di Mao, ma sempre sullo sfondo. E’ figura asettica, causa esterna di una fallimentare politica economica e idolo delle masse. Sono ben pochi a sollevare la testa e a pensarla diversamente. Hu Jie è tra questi.

*Rita Andreetti nasce a Ferrara nel 1982. Si è occupa attivamente di cinema indipendente in Italia anche tramite il portale Indipendentidalcinema.it. Scrive per la rivista Taxidrivers.it e per FareFilm.it di cinema asiatico e cura un blog per Vanity Fair in cui racconta della sua esperienza: cineserie.vanityfair.it. Sogna un giorno di poter parlare cinese correntemente e distribuire film italiani a questo immenso pubblico.