Molto è stato detto sul presunto coinvolgimento di componentistica cinese dual use, spesso – sembrerebbe – ottenuta da Mosca attraverso paesi terzi. Quasi nulla, invece, sappiamo riguardo al ruolo di Hong Kong. Eppure, secondo un’inchiesta del Nikkei Asia Review, proprio dal Porto Profumato si snoda una fitta rete di forniture verso la Russia.
Il 24 febbraio 2022, il giorno in cui è iniziata l’invasione dell’Ucraina, gli Stati Uniti hanno vietato l’esportazione di semiconduttori americani alla Russia, con la sola eccezione delle vendite per scopi umanitari e altre motivazioni speciali. La decisione mirava a indebolire le capacità militari di Mosca privandola dei chip: quei componenti vitali per la produzione di missili, carri armati, droni e aerei militari. Sistemi di guida, radar e dispositivi per il rilevamento di immagini notturne richiedono circuiti integrati avanzati, di cui proprio le aziende americane controllano un’ampia quota di mercato. Ma a oltre un anno dall’inizio della guerra, in Ucraina si continua a combattere. Anche grazie alla tecnologia statunitense.
Molto è stato detto sul presunto coinvolgimento di componentistica cinese dual use, spesso – sembrerebbe dai vari report – ottenuta da Mosca attraverso paesi terzi. Quasi nulla, invece, sappiamo riguardo al ruolo di Hong Kong. Eppure, secondo un’inchiesta del Nikkei Asia Review, proprio dal Porto Profumato si snoda una fitta rete di forniture verso la Russia. A rivelarlo sono i dati doganali russi ottenuti dalla società indiana Export Genius e visionati dalla testata nipponica: tra il 24 febbraio e il 31 dicembre 2022, le operazioni di importazione con oggetto semiconduttori sono state 3.292, ognuna del valore di almeno 100mila dollari. Di queste, 2.358 transazioni – circa il 70% – hanno coinvolto i colossi dei chip statunitensi come Intel, Advanced Micro Devices, e Texas Instruments. 1.774 – il 75% del totale – sono state spedite in Russia da Hong Kong o dalla Cina continentale.
Molte delle transazioni sono state effettuate da piccole o medie imprese, alcune delle quali fondate dopo l’invasione dell’Ucraina. Il valore di tali operazioni è di 570 milioni. Per avere un metro di paragone, nello stesso periodo del 2021, le statistiche ufficiali mostravano solo 230 esportazioni di chip americani attraverso la regione amministrativa speciale cinese, per un ammontare di appena 51 milioni di dollari. Tra le varie operazioni figura la vendita di semiconduttori Intel e AMD da parte di DEXP International, azienda con sede a Hong Kong registrata da un cittadino russo. L’acquirente, Atlas, risulta interamente controllato da Dmitry Alekseev, fondatore del principale rivenditore di elettronica russo DNS Group.
Perché proprio Hong Kong? L’ex colonia britannica non dispone di un sistema di controllo completo sulle esportazioni militari, sebbene applichi verifiche sull’uso finale per gli articoli utilizzabili in armi chimiche, nucleari o biologiche. Questo vuol dire che “è possibile per le società di Hong Kong importare chip che non sono controllati da requisiti di licenza per l’esportazione, in Cina o persino in Russia, e poi riesportare tali chip”, spiega un dirigente di Avnet. Il tutto all’insaputa dei colossi tecnologici americani.
Sebbene infatti i grandi produttori e i distributori affermati di circuiti integrati siano sottoposti a un attento esame da parte delle autorità statunitensi, esiste un network di commercianti più piccoli – persino operazioni individuali e imprese di recente costituzione – più difficili da monitorare. Soprattutto nei periodi in cui le forniture di chip sono più abbondanti e liberarsi delle giacenze diventa una priorità. Spesso queste realtà minori, che in alcuni casi hanno uffici amministrativi nella vicina Shenzhen (la Silicon Valley cinese), possono continuare a operare con nuovi nomi anche se soggette a sanzioni, spiega al Nikkei Benjamin Kostrzewa, ex funzionario dell’Ufficio del rappresentante per il commercio americano.
D’altronde, chiunque può aprire una società a Hong Kong senza nemmeno doverci abitare né esserne cittadino, semplicemente affidandosi a un’agenzia locale. Secondo il quotidiano giapponese, l’ex colonia britannica, proprio grazie alle agevolazioni sulla registrazione di società di comodo, permette alle aziende di far perdere traccia delle proprie attività e riesportare in seconda battuta prodotti soggetti a regime sanzionatorio. E’ un ruolo che il Porto Profumato ricopre dai tempi della guerra di Corea, quando l’ex colonia britannica divenne uno snodo per rifornire la Cina maoista all’epoca colpita dalle sanzioni internazionali.
“Invece di focalizzarsi solamente sul controllo delle esportazioni di componenti elettronici, sarebbe opportuno prestare maggiore attenzione al monitoraggio del movimento dei soldi”, suggerisce Alberto Antinucci, imprenditore e business coach con vasta esperienza a Hong Kong. “Questo approccio – spiega Antinucci al Fattoquotidano.it – potrebbe permettere di individuare più facilmente eventuali violazioni delle sanzioni internazionali e di contrastare efficacemente il riciclaggio di denaro e altre attività criminali. Inoltre, un sistema di monitoraggio finanziario più efficace potrebbe contribuire a rafforzare la trasparenza e la sicurezza del commercio internazionale, favorendo così la cooperazione tra i vari paesi e garantendo il rispetto delle normative vigenti.”
Un altro problema è che, come la Cina continentale, l’ex colonia britannica non riconosce le misure punitive introdotte unilateralmente da Washington, solo quelle approvate ufficialmente dall’Onu. Negli States la faccenda è ben nota. Nel giugno 2022, il Dipartimento del Commercio americano ha imposto provvedimenti sanzionatori contro la società di componenti elettronici con sede a Hong Kong, Sinno Electronics, per il suo “coinvolgimento nell’assistenza militare alla Russia“. Non sono solo i chip a passare per la seconda piazza finanziaria d’Asia.
Lo scorso 5 ottobre si era sollevato un vespaio di polemiche quando lo yacht dell’oligarca Alexey Mordant era attraccato nel porto di Hong Kong. Mordant è il terzo uomo più ricco della Russia, nonché uno dei primi imprenditori a essere stato sanzionato da Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti all’alba del conflitto in Ucraina. Dopo le critiche delle autorità americane, alla fine del mese il panfilo ha preso il largo indisturbato alla volta del Sudafrica.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Il Fattoquotidiano.it]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.