La città murata di Kowloon è stata il posto più denso del mondo per cent’anni. Poi, quando l’ex colonia britannica fu restituita alla Cina, esattamente vent’anni fa, fu demolita. Il libro dei fotografi Greg Girard e Ian Lambot la racconta tra il 1986 e il 1991. “City of Darkness” ha dato inizio a un vero e proprio filone letterario e di studi e oggi viene ripubblicato, Revisited. Intervista a Greg Girard.
“Gli edifici erano a volte di una sola stanza per quattordici piani altezza, un’anomalia con nessun architetto coinvolto nella sua realizzazione. Gli abitanti facevano contratti informali tra di loro e continuavano a costruire così. Ad esempio, se uno non aveva spazio per costruire una scala nel proprio appartamento, trovava un accordo con il proprietario dalla casa accanto, tirava giù un muro e la costruiva lì. Lo stesso succedeva con i corridoi di passaggio attraverso gli edifici. Non era una baraccopoli fuori controllo, ma una comunità dove dai compromessi fisici nasceva un’organizzazione sociale e architettonica”.
Slum, ghetto, utopia anarchica o cyberpunk, Tortuga contemporanea, modello di costruzione spontanea e proliferante per un paio di generazioni di architetti. Sulla Città Murata di Kowloon (Hong Kong), il “posto più denso del mondo”, se ne sono dette parecchie. Vera ossessione per scrittori cult come William Gibson e set cinematografico prediletto per i film di Jackie Chan o di Jean Claude Van Damme, nel 1987 era la casa di 33mila persone compresse in 2,6 ettari: protese verso il cielo alla ricerca di spazio e luce, come in una cattedrale gotica.
La sua unicità risaliva al fatto che non fu inserita nella “convenzione” del 1898 con cui la dinastia Qing cedeva per 99 anni altre parti di Hong Kong (i “Nuovi Territori”) alla Corona Britannica, dopo la perdita della parte insulare ai tempi delle Guerre dell’Oppio. Pezzo di Cina irraggiungibile dall’amministrazione di Pechino (che dall’inizio del Novecento ebbe del resto ben altre gatte da pelare) e al contempo enclave sottratta alla legge coloniale britannica, nel 1899 fu comunque occupata militarmente dalle truppe di Sua Maestà in spregio al trattato appena firmato: vi trovarono settecento residenti, decisero che non era di alcun interesse e la lasciarono a se stessa per quasi cent’anni.
Invasione giapponese, guerra civile cinese, presa di potere maoista, Rivoluzione Culturale: con gli sconvolgimenti politici del secolo breve, l’enclave a suo modo protetta visse il proprio boom demografico a sviluppo verticale, nella città dove il modello grattacielo trionfa come soluzione allo spazio ridotto. Esattamente vent’anni fa, nel 1994, la Città Murata fu demolita. I britannici, che stavano per restituire Hong Kong alla Cina, non volevano lasciarsi alle spalle luoghi “indecenti” che avrebbero potuto essere utilizzati strumentalmente contro l’immagine della Corona.
Per celebrare la ricorrenza verrà a breve riedito, in versione ampliata, “City of Darkness”, il libro dei fotografi Greg Girard e Ian Lambot che per cinque anni – tra 1986 e 1991 – hanno frequentato la “City” e la sua gente, dando inizio a un vero e proprio filone letterario e di studi. Proviamo a ricoprire questo luogo unico al mondo con lo stesso Girard.
Hai vissuto a Hong Kong a partire dal 1982 ma ti sei avvicinato la Città Murata solo nel 1986. Hai avuto bisogno di un approccio lungo a un’entità così complessa?
Vivevo a Hong Kong e fotografavo, ma non ero ancora professionista e di fatto lavoravo a BBC News, coprendo tutta l’Asia su una varietà di temi cha andavano dalle calamità naturali alle guerre. Tra un lavoro e l’altro, fotografavo Hong Kong per conto mio. Una sera, mi aggiravo dalle parti del vecchio aeroporto internazionale di Kai Tak, tra gli ultimi in Asia a essere collocato in pieno centro, attaccato al porto, e famoso per gli atterraggi drammatici. Giro un angolo e mi si para davanti questa “cosa” che non avevo mai visto prima, completamente fuori luogo nella moderna Hong Kong: centinaia di costruzioni appiccicate una all’altra in una specie di “super edificio” fai-da-te. All’epoca era circondata da due villaggi di squatter che bisognava attraversare per andare al blocco principale. Chiunque a Hong Kong aveva sentito parlare della Città Murata, ma io non ne avevo mai visto una sola fotografia, quindi era per me qualcosa di totalmente nuovo.
Sei partito da qualche tesi sociale? E come è stato l’incontro con Ian Lambot?
No, sono partito semplicemente perché questa “cosa” esisteva e quando ho iniziato a lavorare lì mi è venuta voglia di capire come funzionava, non architettonicamente, ma dal punto di vista della gente che l’abitava: come le persone usavano questo posto. Molto presto, ho capito che tutte le storie che si raccontavano erano mistificazioni. Ciò che era stato scritto prima era molto sensazionalista, un sorta di giudizio continuo su prostituzione, droga, condizioni di vita terribili. Ma quando sono andato lì ho capito che quell’epoca era già finita, droga e prostituzione non erano diffuse più che in qualsiasi altro quartiere operaio di Hong Kong. In quel periodo ho incontrato Ian Lambot, che è diventato il mio partner nel progetto. Anche lui stava già fotografando la “City”, ma dal momento che aveva una formazione da architetto, il suo approccio era totalmente diverso: lui si concentrava sul fenomeno architettonico, io ero più sul documentario sociale. Abbiamo deciso di unire le nostre forze e di fare qualcosa di concreto insieme.
Poi ci avete lavorato cinque anni. Come funzionava?
In quell’epoca, viaggiavo molto per la BBC e per alcune riviste, ma quando tornavo a Hong Kong mi concentravo su quel progetto. Mi svegliavo e prendevo l’autobus per l’aeroporto, portandomi dietro tre borse: le macchine fotografiche, i cavalletti e le luci. A volte non ho portato le luci e me ne sono pentito perché la Città Murata era buia: City of Darkness, appunto. Quando a fine anni Ottanta arrivò la notizia che doveva essere demolita, altri cominciarono a fotografarla, utilizzando molto bianco e nero per confermare la tesi del “posto terribile”: i vecchi stereotipi. Ma io volevo catturarla così com’era, senza drammatizzare. Volevo mostrare tutto.
Chi erano gli abitanti della Walled City?
Soprattutto hongkonghesi i cui genitori e nonni erano arrivati dal sud della Cina durante i vari sconvolgimenti del Ventesimo secolo: la guerra con il Giappone, la presa di potere comunista e la Rivoluzione Culturale. Erano per lo più cantonesi provenienti da appena oltre il confine, dalla provincia del Guangdong. La “City” era il luogo dove potevano praticare abbastanza tranquillamente le loro attività.
Che storie ti colpirono all’epoca?
Trovai soprattutto interessante che la gente aveva cominciato a fare business lì dentro perché era più economico rispetto al resto di Hong Kong. Per lavorare giusto al di là della strada, bisognava pagare le licenze, quindi dentro la “Città” operavano tantissimi dentisti la cui qualifica non era riconosciuta dalle autorità locali. Potevano tranquillamente esercitare la professione di dentista o di medico senza passare l’esame professionale di Hong Kong. Così la città murata era molto famosa proprio per i dentisti e i medici. Tra l’altro, stavano al piano terra dell’edificio, in locali che spesso erano aperti sui vicoli, e quindi l’accesso per fotografare era piuttosto semplice.
Ma tutte le attività si trovavano nella stessa situazione, per cui era possibile fotografare luoghi di lavoro molto drammatici, come macellerie con carcasse di maiali scannati sul pavimento. Scoprendo poi che li macellavano lì di giorno e te li ritrovavi in qualche grande ristorante di Hong Kong la sera. C’era poi tutta una serie di attività collaterali attorno alla Città Murata, che quindi non era un posto isolato, ma molto integrato con i quartieri circostanti e con tutta la città. Alcune persone vivevano fuori dalla Città e lavoravano al suo interno, ma la maggior parte ci lavorava e ci viveva. Questo è il motivo per cui c’erano per esempio negozi di tagliatelle a conduzione familiare, dove a fine giornata lavorativa si facevano le pulizie, si tiravano fuori tavoli e letti e diventavano un appartamento.
Nel 1987, quando arrivò la notizia che la Walled City doveva essere demolita, divenne più facile fotografarla, perché la gente finì per capire perché eri lì. Prima, era invece diffuso un certo atteggiamento difensivo, soprattutto a causa della cattiva reputazione del luogo; così le persone non volevo essere ritratte sui media e associate alla “City”. Ma dal 1987 sempre più gente ha cominciato a farsi un giro per vedere che cosa fosse quel luogo, c’erano addirittura alcune compagnie turistiche giapponesi che l’avevano inserita nel tour della città. Era piuttosto divertente vedere i turisti che scendevano dai bus proprio alla Città Murata.
Com’era la comunità locale? Per esempio, la densità del luogo ha avuto una particolare influenza sull’identità della gente che ci viveva?
A quel tempo non c’era una vera e propria percezione della densità, non si sapeva che fosse “il luogo più denso del mondo” e non credo che la gente guardasse la città murata in questi termini. La densità era solo una risposta a condizioni specifiche e la caratteristica principale era che il posto non era amministrato da un’autorità centrale. L’unico regolamento imposto riguardava l’altezza massima degli edifici a causa del vicino aeroporto: non più di quattordici piani. La polizia non entrava per operazioni di pattugliamento, a causa di reati minori o di questioni amministrative, ma contrariamente a quanto si pensa era del tutto operativa in caso di crimini più gravi. Negli ultimi tempi il pattugliamento era ovviamente diventato molto più regolare.
Negli ultimi giorni della Città Murata, molte persone erano ben contente di andarsene con in tasca le compensazioni offerte dal governo e chi si opponeva alla demolizione era una minoranza. L’unico modo per ottenere un alloggio decente in una città cara come Hong Kong era quello di accettare i soldi e trasferirsi in un nuovo appartamento in qualche complesso residenziale lontano, verso il confine dei Territori.
Nel primo libro, uscito nel 1993, abbiamo cercato di rendere l’idea dell‘organizzazione interna tutto sommato funzionante della “City”. Poi, quel luogo ha attirato l’attenzione degli studi di architettura, che ancora oggi cercano di svelare come funzionava, per esempio per quanto riguarda la distribuzione dell’aria e dell’acqua. Così City of Darkness ha vissuto di vita propria negli ultimi 20 anni ed è diventato fonte di ispirazione per architetti, registi, artisti, designer.
Il successo presso il pubblico degli architetti è dovuto al fatto che ha mostrato come una città può essere. In teoria architettonica circola sempre questa idea di una città senza architetti e leggendo il libro hanno scoperto che effettivamente esisteva. Non avremmo mai immaginato che il nostro lavoro potesse diventare una specie di base teorica e l’anno scorso abbiamo deciso di tornare ai nostri archivi fotografici, dando un occhio anche alle ricerche più recenti, che magari hanno preso spunto dal nostro lobro per poi ampliarlo e approfondirlo. Così è nato il nuovo progetto: City of Darkness Revisited.
Per la nuova edizione avete scelto di coprire i costi di pubblicazione con il crowdfunding, raccogliendo ben 82mila sterline sulla piattaforma Kickstarter. Vuoi raccontarci questa esperienza?
È come essere sull’ottovolante: spaventoso ed esaltante. Io non sono mai stato un grande frequentatore dei social media e Ian lo è ancora di meno, così ha mollato a me tutto il lavoro sporco. Credo di avere postato su Facebook due volte nel 2008 e ora ho dovuto buttarmici a capofitto. Non ero molto sicuro di quello che stavo facendo, ma mi hanno detto che la pagina doveva essere aggiornata almeno due volte al giorno: una cosa pazzesca. Siamo stati ripresi e rilanciati da piccoli siti specializzati, come Designboom, che coinvolgono un pubblico di esperti. Ma il grande salto in termini di crowdfunding arriva quando si cattura l’attenzione dai media tradizionali come, nel nostro caso, la CNN, che ci ha dedicato un servizio.