Cinque minuti. Sono gli attimi necessari a scendere da un pullman, recarsi nella toilette più vicina per ripartire immediatamente: ci sono altre sei ore da percorrere, con solo due brevi soste previste. Cinque minuti, urla l’hostess a bordo. Nessuno fiata, qualcuno fuma rapido, altri scappano a comprare qualche tipo di bevanda o cibo.
Si va di corsa in Cina, perché le distanze sono impensabili e perché non tutta la Cina è Pechino, o Shanghai. Strade sgangherate, spesso teatro di lavori in corso costanti, tratti sterrati, buche, strane tratiettorie di luci, clacson e un panorama che cambia come se il vetro della vettura, può essere un pullmann, un bus, un mini bus, un veicolo a tre ruote, fosse un caleidoscopio in cui i caratteri cinesi vanno a comporre percorsi di vita diversi. Un’altalena multiforme, complessa, uno specchio continuo tra Cina potenza mondiale e Cina in via di sviluppo.
La strada che porta dalla contea di Sanjiang a Liuzhou, è un viaggio nel tempo fatto di panorami mozzafiato delle montagne e delle cave dei dintorni di Yangshuo, di villaggi derelitti e sporchi e del decadente aspetto della meta momentanea di arrivo. Liuzhou è una cittadina cinese che si snoda attraverso una lunga via, vita di strada, palazzi vecchi e decrepiti, mendicanti vicino alle stazione dei bus, allontanati con fin troppo ardore da uno dei tanti cinesi con una fascia qualunque al braccio.
L’Occidente non entra in questa città del Guangxi, regione tra le più povere della Cina, non ancora considerata a pieno diritto tra quelle toccate dal miracolo economico. Qualcuno potrebbe osservare che il Guangxi è anche una di quelle regioni, usata tatticamente in occasione della guerra in Vietnam, composta per lo più da minoranze etniche. Alcune delle quali, come gli Yao, sono consideate storicamente ostili agli han: si racconta che perfino i giapponesi durante la loro avanzata avessero evitato di infittirsi nei passaggi boschivi che portavano là in cima. Dove oggi, contadini con cappelli di paglia e pantaloni alle ginocchie stendono curve le mani su spianate di riso.
Vengono chiamate le terrazze del drago e a seconda della loro strana composizione geometrica o vicinanza con picchi, sono definiti con nomi altisonanti e allusivi ad un passato glorioso. In mezzo vecchie case di legno, generatori per garantire una piccola luce in casa anche dopo le 22, molti e piccoli ostelli che sorgono tra i sentieri, nel tentativo di rinverdire i fasti della zona sfruttando la fama di Guilin e Yangshuo, o i villaggi Zhuang di Ping’an, mete predilette del turismo interno e non solo.
Dal Guangxi, per l’esattezza da Guiping, nel lontano 1851 partì una delle più sanguinose ribellioni in Cina. Vennero chiamati Taiping a causa della loro volontà a instaurare in terra il regno celeste della pace universale (taiping tianguo), un misto di sincretismo ed egualitarismo: guidati da Hong Xiuquan, autoproclamatosi fratello di Cristo, misero in atto una riforma agraria e arrivarono fino a Nanchino. Poi vennero spazzati via, non senza il contributo francese e anglosassone. Un’anticipazione della rivolta dei boxer, che rimise a posto, dal punto di vista cinese, il danno arrecato da quel secolo di oppio e stupri occidentali.
L’imbarcadero profuma di melma, o forse è l’ammucchiata di plastica sulla riva del fiume a confondere le idee e perfino l’olfatto. Al piccolo porto di Yangdi la coppia mostra le foto dei loro figli, di tre e quattro anni. I genitori ne hanno 23, vivono portando da una parte all’altra del fiume i turisti. Il tratto è quello più suggestivo e meno percorso, ma considerando le distanze, anche fluviali, il viaggio giornaliero che si fa è uno solo.
All’andata con a bordo qualche persona. Poi si ritorna, spesso in solitaria, totale otto ore, che diventano anche dieci se ci si ferma nei villaggi appoggiati alle rive basse del fiume, solcato da cave e nuvole basse. Se va bene la contrattazione, l’incasso giornaliero è di circa 200 rmb, poco più di 20 euro.
Da queste parti è una cifra non da poco, specie perché non si ha la pelle arsa dal sole e le gambe mangiate dall’acqua delle risaie. Per questo si dividono i compiti: "mio marito porta la barca, io faccio avanti e indietro su minibus, prendo una piccola percentuale e imparo l’inglese con i turisti", racconta lei.
Lungo il percorso in fiume ci fermiamo in un piccolo villaggio: case di fango, l’unica dotata di mura di cemento porta una grossa falce e martello rossa. Vecchi e bambini guardano furtivi da grandi androni, arredati con poche sedie e l’immancabile quadro di Mao. Alcune case sono in costruzione: "non ci aiuta il governo, racconta una signora incuriosita dalla nostra attenzione. I soldi arrivano dopo anni di lavoro", fine della conversazione.
Forse perché talvolta per la maggioranza dei cinesi è arduo uscire dal paese, spesso ogni attrazione viene etichettata come “la più bella del mondo”. E’ la spiaggia d’argento di Beihai il patrimonio di questo piccolo porto, vissuto da pescatori nel marasma di mille barchette appese in una riva il cui mare è grigio come il piombo o come l’ammasso di plastica, inframezzato dal polistirolo delle zattere usate per abbordare le barche. In mezzo bambini nudi accompagnati dai genitori svolazzano a riva, sotto lo sguardo attento dei venditori di granchi, gamberi, vongole.
A qualche metro di distanza file di pesce secco ad asciugarsi al sole e le strade che portano al centro storico di Beihai, un miracolo di architettura folle, in stile Macao, reminescenze spagnole, arabe. Un diamante in mezzo ad una città triste, travolta da quei chilometri che la separano da Hainan, l’isola tropicale cinese. Lì si che c’è un bel movimento di turisti e soldi naturalmente.
Incontriamo un insegnante di inglese: è un autista di un triciclo che funge da taxi. Una corsa 4 rmb, circa 50 centesimi di euro. Non se la passano bene i letterati da queste parti: è il mio secondo lavoro, ci tiene a precisare, lo faccio per arrotondare. Non si dica che ha uno stipendio da fame, forse perché così vicini al Vietnam gli han di Beihai hanno un orgoglio nazionalista che fa da eco a quello respirato nelle grandi città.
Nonostante, non le abbia mai viste: "al massimo sono stato a Guilin (a nord di Bei Hai, sono circa dieci ore di pullman, ndr), mai stato a Pechino", conferma.