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Gli Usa rafforzano la presenza nell’Indo-Pacifico

In Relazioni Internazionali, Sud Est Asiatico by Alessandra Colarizi

La decisione, annunciata durante la recente visita di Antony Blinken a Manila, conferma come il governo di Ferdinand Marcos Jr, pur non disdegnando gli investimenti cinesi, sia intenzionato a rendere l’arcipelago la pietra angolare delle alleanze americane nel quadrante indopacifico. Mentre Washington si muove in anticipo prevedendo azioni aggressive da parte di Pechino

La “ambiguità strategica” di Washington è sempre meno ambigua. Da quando gli Stati Uniti hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Taiwan nel 1979 per instaurare rapporti ufficiali con la Cina popolare, il governo americano non ha mai chiarito la propria posizione in caso di un’invasione cinese dell’isola. Ma le tensioni nella regione indopacifica restano elevate. E a preoccupare gli States non c’è solo Taiwan. “Gaffe” di Biden a parte, le ultime manovre militari di Washington nel Pacifico lasciano intendere più chiaramente un possibile coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nell’eventualità di un attacco contro Taiwan e gli altri alleati asiatici, alcuni dei quali legati a Washington da trattati di mutua difesa. L’entità del supporto è ancora difficile da decifrare, ma il cambio di postura dopo decenni di disimpegno americano dallo scacchiere regionale è inequivocabile.

Stiamo parlando della recente estensione della presenza americana in quattro nuove basi militari nelle Filippine. La decisione, annunciata durante la recente visita di Antony Blinken a Manila, conferma come – dopo il pensionamento di Rodrigo Duterte – il governo di Ferdinand Marcos Jr, pur non disdegnando gli investimenti cinesi, sia intenzionato a rendere l’arcipelago la pietra angolare delle alleanze americane nel quadrante indopacifico. Letteralmente: “Non posso immaginare un futuro senza gli Stati Uniti come partner delle Filippine”.

Alleata di Washington fin dalla seconda guerra mondiale, Manila ha chiuso tutte le basi americane negli anni ‘90 a causa della scarsa popolarità degli Yankee tra la gente locale, salvo poi ripristinare parzialmente l’accesso al Paese in risposta all’assertività cinese nella regione. L’accordo di giovedì è in sostanza un potenziamento dell’Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) siglato nel 2014 e porta a nove il numero delle strutture militari a disposizione delle truppe americane.

La localizzazione delle nuove quattro basi – a cui Washington destinerà 82 milioni di dollari – non è ancora nota. Ma, secondo diverse fonti, due si troverebbero nell’isola settentrionale di Luzon, ad appena 300 miglia da Taiwan, e a Palawan, la provincia sud-occidentale con affaccio sul Mar cinese meridionale, dove Manila fronteggia quasi quotidianamente le incursioni di pescherecci e guardia costiera cinesi a sostegno delle rivendicazioni di Pechino su una manciata di isolotti contesi.

Le autorità statunitensi ci hanno tenuto a precisare che non si tratta di basi permanenti. Piuttosto, come previsto dall’EDCA, il personale americano manterrà una presenza “flessibile”. Secondo Randall Schriver, ex assistente del Segretario alla Difesa per l’Asia-Pacifico, l’obiettivo del Pentagono è quello di ottenere almeno un presidio per ciascuna delle forze armate statunitensi (esercito, marina, corpo dei marines e aeronautica). Le nuove strutture avranno perlopiù funzioni logistiche di stoccaggio per carburante, munizioni, pezzi di ricambio e attrezzature varie. Ma la posizione strategica dei nuovi avamposti fa sì che, in caso di dispiegamento di missili balistici a medio raggio, da lì sia possibile bloccare il Canale di Bashi, il tratto di mare tra l’estremità settentrionale delle Filippine e Taiwan sorvolato dai caccia cinesi durante le operazioni militari dell’estate scorsa.

Le manovre americane non sono circoscritte alle Filippine. Washington sta rafforzando i propri asset militari anche nel nord dell’Australia, dove è in corso l’espansione della base d’intelligence di Pine Gap, centrale in un eventuale conflitto con Pechino. In Giappone, altro alleato storico degli States, a gennaio è stata annunciata una riorganizzazione del 12esimo reggimento della Marina americana di stanza a Okinawa che renderà l’unità “più letale, agile e dotata di maggiori capacità” con l’installazione di batterie missilistiche anti-nave e altri sistemi sofisticati. A metà strada tra l’arcipelago nipponico e Taiwan, sull’isola di Guam, invece, sono in dirittura d’arrivo i lavori per aprire (entro il prossimo anno) una nuova base militare – la prima dal 1952 – destinata a ospitare circa 5.000 marine, una volta pienamente operativa.

Camp Blaz, questo il nome della struttura, costituisce il nucleo di un processo riorganizzativo teso ad adattare il Corpo dei marine degli Stati Uniti al complesso ambiente operativo dell’Indo-Pacifico. Avviata almeno un anno fa, la ristrutturazione serve a disperdere i mezzi militari per renderli meno esposti a possibili attacchi esterni. Washington ha in mente la Corea del Nord, che solo nell’ultimo anno ha testato oltre 90 missili balistici. Ma, sul lungo periodo, la vera minaccia resta la Cina.

Dal canto suo, dopo la guerra in Ucraina, Pechino percepisce il protagonismo americano nella regione con anche maggiore fastidio. Per la Cina il conflitto è il frutto dell’espansionismo Nato nello spazio ex sovietico. Le sempre più frequenti esercitazioni militari con Mosca nel Pacifico sono il chiaro sintomo di un disagio acuito dai molti limiti della “amicizia senza limiti” con la Russia. Che fiducia può esserci tra vecchi rivali? Questo è il punto. Commentando ai microfoni del Nikkei Asia Review l’apertura delle nuove basi nelle Filippine, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone, Rahm Emanuel, recentemente spiegava così come il forte risentimento cinese: “Perché noi abbiamo una cosa che loro non hanno. Noi abbiamo alleati e loro no“.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]