Giallo a Edo

In Asia Orientale, Cultura, Uncategorized by Stefano Lippiello

Tra le molte vittime della restaurazione Meiji del 1868 la più eccellente fu la città di Edo, insieme alla sua cultura di samurai, piacere e misteri. Edo era stata fino ad allora la sede dello Shogun e fu proprio nell’ottobre di 150 anni fa che la città da cui egli era appena fuggito con le sue armate in rotta venne ribattezzata Tokyo – la capitale dell’est – pronta ad accogliere la nuova sede imperiale, fino a quel momento a Kyoto. Edo, quella città ormai perduta nel tempo con i suoi costumi quasi dimenticati è la protagonista dell’opera di Okamoto Kido, uno dei padri del giallo giapponese.

Il protagonista in carne e ossa dei racconti di Kido è invece l’ispettore Hanshici, considerato lo Sherlock Holmes giapponese per eccellenza. Lo stesso autore non nasconde l’influenza del personaggio di Arthur Conan Doyle con un piccolo omaggio al famoso detective britannico nella prima storia della serie, che debuttò a puntate (in totale 69) sulla rivista Bunggei kurabu – Club letterario – tra gli anni ’10 e ’30 del novecento.

Oltre ai celebri racconti di Doyle, Kido si ispirò anche ad una vecchia guida della città di Edo – le guide turistiche erano molto diffuse in Giappone al tempo degli Shogun come testimoniano anche i diari di europei dell’epoca tra i più famosi quello di Ernst Mason Satow che le cita spesso – che gli era capitata per le mani e, a sua detta, anche ad alcune conversazioni con i vecchi che avrebbe avuto nel corso del suo lavoro di giornalista, professione che svolgeva dall’età di diciotto anni, testimone dei cambiamenti della sua città.

Solo pochi decenni separano l’epoca in cui Kido scrive delle investigazioni di Hanshici dall’era di Edo in cui sono ambientate le vicende, ma per il lettore contemporaneo dell’autore il tempo trascorso sembrava molto di più tanto era cambiata la città. Questo fu uno degli effetti narrativi che contribuì al successo dell’opera e ne marca l’originalità rispetto all’opera di Doyle a cui si ispira. Il senso di straniamento del lettore iniziava già dal titolo della serie: torimonocho.

Per il lettore abituato alla fremente Tokyo degli inizi del novecento quel titolo evocava un passato feudale di enorme distanza culturale, anche se di soli pochi decenni prima. Così è l’ispettore Hanshici stesso in una delle storie a spiegare ai lettori che il torimonocho era il registro delle indagini tenuto dal magistrato della vecchia città di Edo.

La città che esce dai racconti è popolata di ogni sorta di samurai, ronin, sacerdoti senza scrupoli, mercanti di schiavi, ladri e imbroglioni. Il pericolo è sempre in agguato in un clima ancestrale dove le presenze misteriose sono parte della vecchia Edo. I dialoghi dei personaggi alludono spesso al sovrannaturale, anch’esso elemento tipico del Giappone feudale, e al teatro storico giapponese – Kido era anche un affermato sceneggiatore del teatro kabuki.

L’ambientazione storica, però, non è usata da Kido solo per fare da sfondo e dare colore alla narrazione. È piuttosto un elemento chiave delle storie stesse. Spesso, infatti, sono dettagli culturali dimenticati della vecchia Edo a essere centrali alla soluzione del mistero. Questo marca una differenza rispetto alle indagini di Sherlock Holmes.

Il filone giallo era arrivato in Giappone qualche decennio prima di Kido, introdotto dalle traduzioni e dagli adattamenti di Ruiko Kuroiwa, considerati dalla stessa critica come parte di una agenda occidentalizzante di denuncia dell’arretratezza giapponese, mentre prima dell’ottocento erano diffusi solo drammi giudiziari dalla struttura narrativa inversa, basati su di un modello cinese tradotto per la prima volta nel corso del seicento, in cui il colpevole è noto fin dall’inizio e la storia si occupa di come il giudice riesca a dimostrarne la colpevolezza. Il genere giallo sarà poi portato avanti dagli anni ’30 da Edogawa Ranpo con un’evoluzione grottesca e erotica del genere che avrà molto seguito nel dopoguerra e che viene celebrato per i suoi ibridi, in risposta alla crisi d’identità e all’ansietà del clima di estrema destra di quegli anni.

Per la critica è proprio Kido a costruire una vera originalità nei gialli giapponesi rispetto ai modelli occidentali, c’è lo stile realistico figlio della cronaca giornalistica dell’autore e c’è la razionalità delle indagini, ma con un adattamento ai gusti giapponesi. Dopo novanta anni i gialli di Kido sono ancora rilevanti in Giappone, vengono letti e ristampati; gli autori contemporanei del genere li omaggiano; e ne sono stati tratti diversi adattamenti teatrali e cinematografici.

I suoi personaggi vivono nell’innovazione dell’era Meiji (Hanshici racconta le sue storie al narratore da vecchio), ma si trascinano attaccati ai pezzi di una città (e una cultura) che era la loro e che non c’è più, divorata dalla modernità.

[Pubblicato su il manifesto]