G20: sostiene Li Keqiang

In by Simone

[In collaborazione con AGICHINA24] A pochi giorni dalla chiusura del vertice G20 di Seul e a qualche settimana della decisione di lanciare un nuovo alleggerimento quantitativo, la risposta dei massimi vertici cinesi non tarda ad arrivare. E giunge direttamente dal vice premier Li Keqiang che mette guardia sul pericolo di inflazione e afflusso di capitali speculativi. “Alcune potenze mondiali hanno adottato politiche monetarie di espansione della liquidità con il solo scopo di stimolare la propria ripresa economica”, ha scritto il vice-primo ministro, il quale, seppur non citando direttamente Washington, ha chiarito le posizioni di Pechino rispetto alle strategie monetarie statunitensi. La Federal Reserve all’inizio del mese aveva infatti annunciato un programma di acquisto di titoli di stato (il cosiddetto “quantitative easing”) a sostegno dell’economia reale (in tutto da qui a giugno la banca centrale Usa acquisterà 600 miliardi di dollari di T-bond, di cui 75 miliardi questo mese).
 
La tesi di Li Keqiang è che una politica di allentamento monetario abbia buone probabilità di determinare l’aumento dei prezzi di prodotti fondamentali per i mercati internazionali come petrolio e altre risorse energetiche e che l’inflazione possa abbattersi sulla crescita delle economie emergenti. Le critiche più serrate non nascondono il sospetto cinese che la strategia della Fed sia mirata a rendere i prezzi dei prodotti americani più bassi – e quindi competitivi al confronto proprio con quelli delle economie emergenti – e a dare una spinta propulsiva all’export Made in USA. Ed è sempre Li ad aver sottolineato come anche la Cina abbia dovuto sopportare una “nuova pressione” per la stabilizzazione della domanda estera e della crescita economica e non ha esitato ad attribuire la responsabilità di tale situazione – oltre alla lentezza con la quale procede la ripresa economica mondiale – alle politiche economiche di quei Paesi che hanno concentrato gli sforzi sul proprio export.
 
Sullo sfondo delle critiche alle politiche economiche degli Stati Uniti si fanno strada anche nuove proposte tutte cinesi sull’amministrazione del sistema monetario internazionale. Secondo il vice direttore generale del dipartimento affari internazionali della People’s Bank of China, Jin Zhongxia, che ne ha denunciato l’instabilità imputandola al numero ridotto di valute di riserva sul quale è basato, la Cina dovrebbe rendersi meno dipendente dalle valute internazionali di riserva.“Le transazioni transfrontaliere condotte in yuan ridurrebbero i rischi di una massiccia fluttuazione del tasso di cambio”, tutto a vantaggio dei partner commerciali della Cina.
 
Venerdì scorso, il vertice del G20 di Seul si è concluso senza un risultato concreto. Il comunicato congiunto conteneva formule molto generali, che sembravano scritte per non scontentare nessuno: il G20 ha assicurato “un fermo impegno a cooperare per raggiungere gli obiettivi di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”. Nel documento si legge inoltre che i leader delle potenze che hanno preso parte al vertice intendono “rimanere vigile sugli eccessi di volatilità delle valute”, respinge “il ricorso alle svalutazioni competitive”.  In conclusione è stato affidato la vigilanza al Fondo Monetario Internazionale e al gruppo di lavoro sul framework l’incarico di sviluppare linee guida che andranno poi comunicate ai Governatori delle banche centrali e ai ministri delle Finanze, fissando una prima verifica entro i primi sei mesi del prossimo anno.  In realtà, nonostante nessuno dei leader e dei negoziatori presenti al G20 si sognerebbe mai di sottoscrivere esplicitamente una frase del genere, il risultato del summit potrebbe essere riassunto così: “Non introducete precisi vincoli numerici su deficit e surplus commerciali e non manifestate pressioni sulla rivalutazione dello yuan (o di altre monete); noi eviteremo di criticare direttamente le politiche monetarie della Fed”.
 
Ma quello di Seul si annunciava come il vertice G20 più turbolento da quando quest’organismo è arrivato alla ribalta della scena politica mondiale, dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, e nessuna delle questioni che si agitavano alla vigilia sembra avere trovato una soluzione definitiva. Non l’ha trovata il problema delle ampie disparità nelle bilance dei pagamenti tra le varie nazioni: la proposta, fortemente voluta da Barack Obama, di fissare un tetto del 4% del PIL per gli squilibri di surplus e deficit correnti è rimasta lettera morta per l’opposizione di quelle economie che sono uscite più velocemente dalla crisi, Cina in testa. “Fissare artificialmente un obiettivo numerico non può che portarci indietro ai tempi delle economie pianificate”, aveva detto ironicamente il viceministro degli Esteri cinese Cui Tiankui; e anche se un anonimo alto funzionario USA ha dichiarato che “tutti riconoscono che sarà necessario arrivare a un accordo sui numeri”, nulla di concreto è stato stabilito.  
 
Non ha trovato accordi effettivi neanche il tema delle svalutazioni competitive, che dalle tensioni tra Cina e USA si è poi diffuso su numerose altre economie. Da tempo, infatti, Washington criticava il tasso di cambio dello yuan, considerato troppo basso rispetto al valore reale della moneta cinese, e pertanto in grado di avvantaggiare slealmente Pechino negli scambi con l’estero, USA in primis. Negli ultimi mesi l’aggressività dell’export cinese ha innescato una reazione a catena che ha condotto Giappone, Corea del Sud, India, Thailandia, Brasile e Svizzera a intervenire sulla propria moneta per diminuirne il valore e avvantaggiarsi così nelle esportazioni a scapito dei concorrenti. Questo gioco del domino, che alcuni avevano definito una vera e propria guerra valutaria, è culminato con la decisione della Federal Reserve di lanciare un nuovo alleggerimento quantitativo da 600 miliardi di dollari; una mossa, come abbiamo visto, che – di fatto – equivale a stampare nuova moneta, iniettando nuova liquidità e abbassando il valore del dollaro per rinvigorire un’economia americana che stenta ancora a decollare. 
 
Nell’incontro a due tra Barack Obama e Hu Jintao, il presidente cinese ha ribadito che una riforma del tasso di cambio dello yuan necessita di un “contesto internazionale stabile e adeguato”, e pertanto si potrà procedere “solo in maniera graduale”, resistendo così una volta di più alle pressioni americane. Ma Hu Jintao ha anche espresso le sue preoccupazioni per gli effetti del nuovo quantitative easing Made in USA, dato che un dollaro più debole non mancherà di dirottare verso le economie emergenti flussi di capitali speculativi capaci di aumentarne l’inflazione al di là dei livelli di guardia (oltre che diminuire il valore delle enormi riserve in dollari che il Dragone custodisce nei suoi forzieri); critiche alle quali il presidente americano ha risposto sostenendo che un’economia americana più forte significa maggiori benefici per tutte le economie del mondo.
 
L’unico solido accordo raggiunto – peraltro ampiamente previsto – riguarda allora la riforma della governance del Fondo Monetario Internazionale, che riconosce maggiori poteri di voto alle economie emergenti come Cina e India a scapito di alcune potenze europee, quali Francia, Germania e Gran Bretagna. E se qualcosa di netto emerge da Seul, forse, è proprio la solitudine europea: “L’euro non può essere l’unica moneta a fare le spese delle svalutazioni competitive” aveva dichiarato il Cancelliere tedesco Angela Merkela alla vigilia del summit. I cinque paesi europei presenti al summit hanno dovuto rassicurare le altre nazioni sui rischi della nuova crisi che sta investendo in queste ore l’Irlanda.
 
[Articolo pubblicato da AGICHINA24 il 15 novembre 2010]