Dossier: Cinafrica, quei disordini a Canton (ultima parte)

In by Simone

Se il maggior numero di coreani in terra cinese vive nel nord-est e in particolare nella metropoli commerciale di Dalian o se le comunità di occidentali sono per lo più sparse tra Pechino e Shanghai, la comunità africana in Cina di più grandi dimensioni la troviamo nel profondo sud, a Canton, non distante dalla ex colonia britannica di Hong Kong.
Sono più di 20.000 gli africani che vivono a Canton, centro economico e commerciale della provincia del Guangdong, meglio conosciuta come «fabbrica del mondo». Secondo la polizia sono molti di più, perché molti dei residenti non sarebbero registrati o avrebbero un visto scaduto. Vivono nell’area che dai cinesi è chiamata «Little Africa» o «Chocolate City». Sono soprattutto giovani che arrivano da ogni parte del continente nero e sono per lo più dediti ad attività di commercio ed import-export con la Cina. Tramite Canton appunto, importantissimo porto cinese al pari di Shanghai, Hong Kong o Tianjin.

Il 15 luglio dello scorso anno la comunità africana di Canton si è vista puntare addosso i riflettori dei media di mezzo mondo. Un numero imprecisato tra le cento e le duecento persone ha marciato di fronte ad una stazione di polizia per protestare contro le molestie subite dalla popolazione nera e chiedere al governo nigeriano di intervenire.

La manifestazione fu organizzata a poche ore dalla morte di Emmanuel Egisimba, un ragazzo nigeriano che si era lanciato dal secondo piano di un centro commerciale per sfuggire ad un controllo di polizia. Ferito ma fuori pericolo un altro ragazzo che era con Emmanuel. I due sono volati da un’altezza di diciotto metri. Discordanti sono state le versioni della polizia e dei testimoni: secondo quanto riportato dagli agenti, Emmanuel, mercante di indumenti, non sarebbe morto sul colpo ma sarebbe rimasto gravemente ferito; l’altro, dedito al cambio non autorizzato di valute straniere, avrebbe invece riportato solo lievi ferite.

Di certo è rimasta solo la protesta spontanea ed improvvisata dei duecento africani, che si sono radunati fuori dall’ufficio di polizia dove i due ragazzi sono stati trasportati. È stato il primo caso di una manifestazione di protesta ad opera di stranieri in Cina.

Già mesi prima il Global Post aveva a lungo parlato dei problemi burocratici che la comunità africana stava avendo in Cina, specialmente nella provincia del Guangdong. A ridosso delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (primo ottobre 1949), i controlli si stavano facendo più serrati da parte delle autorità ed ottenere un visto (o un’estensione di permesso di residenza) era sempre più difficile. Per questo molti commercianti africani a Canton hanno scelto la via dell’illegalità, suscitando un inasprimento delle pene (imprigionamento e multe salatissime) su tutta la comunità africana. Con le conseguenze anche più drammatiche, come nel caso di  Emmanuel Egisimba.

A volte sono i soliti luoghi comuni o l’intolleranza a sfavorire gli africani di Canton. «Forse qualche cinese pensa che gli africani non siano brava gente. Non vogliono troppo africani nel loro paese» ha detto Chuks Nwafor, commerciante di indumenti, ai microfoni del Global Post. E chi ha un visto scaduto o qualche problemino con la legge finisce per chiedere aiuto ai leader religiosi. Padre James, nigeriano in Cina dal 2004, è uno di quelli che offre protezione ai giovani africani di Canton: una via di mezzo tra pastore e operatore sociale.

Nelle chiese protestanti della Cina comunista la comunità africana si sente quasi a casa: «Questo è l’unico posto dove ci sentiamo completamente al sicuro» racconta Austin Jack, commerciante nigeriano di 27 anni, «una volta che lasci la chiesa sai che può accaderti di tutto».

Negli articoli correlati, in alto a destra, le altre tappe del dossier Cinafrica di China-Files.