Se qualcuno in Cina vi invita ad un brindisi, è importante ricordare di sollevare il bicchiere di grappa il più in basso possibile, in segno di formale rispetto ed omaggio al vostro ospite. La scorsa settimana, il premier britannico David Cameron ospite in Cina ha adempiuto alle formule dell’etichetta diplomatica, complimentandosi con il Dragone per i numerosi risultati raggiunti, ormai un classico per ogni leader straniero in visita nella Repubblica Popolare, accompagnato da una delegazione di imprenditori proni a stipulare contratti con i partner cinesi.
Dopo il piccolo scontro diplomatico sui papaveri e la positiva giornata d’affari del 10 novembre, conclusa con un contratto da 750 milioni di sterline tra Rolls Royce e China Eastern Airlines, il premier britannico ha pronunciato un discorso alla Peking University, evento che la stampa internazionale aveva annunciato come un coraggioso appello per i diritti umani. Nei giorni precedenti, la macchina della repressione cinese si era messa in moto: Ai Weiwei, noto architetto e dissidente cinese recentemente protagonista di una installazioni artistica alla Tate Modern Art Gallery di Londra, è stato messo agli arresti domiciliari nella sua residenza di Pechino per 48 ore, così da impedirgli di partecipare alla polemica festa da lui indetta a Shanghai per la distruzione del suo studio, imposta dalle autorità locali; Mo Shaoping e He Weifang, avvocati vicini a Liu Xiaobo (il dissidente cinese condannato a 11 anni di carcere e che è stato di recente insignito del premio Nobel per la Pace) ed impegnati nella difesa dei diritti umani, si sono visti invece negare il permesso di imbarcarsi su un aereo per Londra, dove avrebbero dovuto presenziare ad una conferenza.
Questi due eventi hanno inevitabilmente aumentato le aspettative per il discorso del giovane Cameron, chiamato a dimostrare quanto un leader del vecchio continente sappia tenere la schiena dritta davanti al salvagente anti-crisi Cina. Davanti a un pubblico di universitari e media di mezzo mondo, cinesi compresi, David Cameron ha esordito con il classico copione dell’elogio – più che giustificato – del motore economico cinese, stabile nonostante le burrasche finanziarie. Ma esauriti i convenevoli, in modo molto chiaro e pacato, il leader conservatore ha spiegato ai presenti il sistema di pesi e contrappesi delle democrazie occidentali, il ruolo dell’opposizione di governo e della divisione dei poteri, passando per l’importanza di mezzi di informazione indipendenti ed imparziali: «Attraverso i media, il pubblico ha l’occasione di sentire le opinioni di persone che la pensano in modo diverso dal governo in carica. Può anche essere difficile, alle volte – ha proseguito Cameron – ma noi crediamo che più il popolo britannico viene informato delle questioni che coinvolgono la nostra società, più sarà facile per il governo britannico arrivare a prendere decisioni delicate e sviluppare delle politiche concrete che rispondano alle necessità del nostro popolo».
Nel raccontare il funzionamento della democrazia britannica, Cameron ha palesato in modo cauto e rispettoso le differenze sostanziali tra Gran Bretagna e Cina, dove – nonostante il processo di istituzionalizzazione del sistema politica avviato all’inizio degli anni ’80 – l’opposizione secondo l’accezione occidentale è inesistente, i media sono controllati dal governo ed il potere giudiziario, legislativo ed esecutivo sono saldamente nelle mani del Partito comunista cinese, da oltre 60 anni. Tutte notizie che sicuramente non sono suonate come grosse novità alla platea, universitari ben consci di come funzioni il mondo oltre i confini della loro Repubblica.
Chi si aspettava un’improbabile arringa pro diritti umani e Liu Xiaobo sarà di certo rimasto deluso, ma come sostengono alcuni osservatori a Cameron va probabilmente riconosciuto il merito di non aver messo la testa nella sabbia, fermandosi allo scheletro economico esteriore che racchiude un Paese in costante evoluzione, tanto economica quanto sociale, come la Cina del nuovo millennio. Anzi, in un colloquio a porte chiuse con Wen Jiabao, il premier britannico avrebbe sollevato esplicitamente la questione del premio Nobel, forse trovando in nonno Wen, come viene chiamato affabilmente dai media nazionali, un interlocutore più predisposto a certi temi, tra l’altro già trattati dallo stesso Wen nella sua recente visita in Europa.
Prima di Cameron, solo Obama, nel celebre discorso di Shanghai, aveva saputo far filtrare delle tematiche scomode, seppur così ovvie, al Partito comunista cinese. E come per Obama, le parole di Cameron non sono state riprese dai mezzi d’informazione cinesi, che hanno invece tessuto le lodi del giovane premier britannico e delle relazioni biliaterali sino-britanniche all’insegna dell’ottimismo e del win win: oltre ai complimenti alla Cina ed alle rassicurazioni sul ruolo positivo della crescita cinese, Cameron alla Peking University non aveva detto altro.
Concluso il discorso, dalla platea della prestigiosa università di Pechino si è levata la mano di uno studente: «Oltre a dare consigli alla Cina, la Gran Bretagna cosa può imparare dal nostro Paese?» «Molte cose » ha risposto Cameron, spiegando di volersi ispirare alla Cina per l’organizzazione delle prossime Olimpiadi di Londra e chiedendo come abbia fatto la Cina, in soli trent’anni, a sollevare 500 milioni di persone dalla soglia di povertà. Nel brindisi virtuale con Pechino, il bicchiere britannico è rimasto ben saldo sotto il livello della mancanza di rispetto, come bon ton cinese insegna.
[Articolo pubblicato su AGICHINA24 il 12 novembre 2010]