Dragonomics – Rischio Trump sugli investimenti cinesi

In Asia Orientale, Economia, Politica e Società, Relazioni Internazionali by Gabriele Battaglia

Il 2016 è stato un anno da record per gli investimenti cinesi negli Stati Uniti. L’ammontare è triplicato rispetto al 2015. Anche l’anno appena iniziato potrebbe confermare la tendenza. Ma l’annunciata politica economica di Trump mette a rischio i rapporti. L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe frenare la cavalcata degli investimenti diretti cinesi negli Stati Uniti. Il 2016 è stato un anno da record: tra acquisizioni e nuovi stabilimenti, i cinesi si sono impegnati negli Usa per 45,6 miliardi di dollari, quasi la metà dei 109 miliardi totali messi sul piatto dal 2000.

L’ammontare è il triplo di quanto investito nel 2015 e dieci volte il totale registrato cinque anni fa. Se ci si dovesse attenere soltanto ai fondamentali, tale tendenza dovrebbe continuare anche nel 2017, spiega un’analisi del gruppo Rhodium.

Tuttavia il previsto boom degli investimenti rischia di scontrarsi con il nuovo quadro politico sull’asse Washington-Pechino e con le politiche adottate in casa dalla stessa Repubblica Popolare.

Tornando all’anno appena trascorso, gli investimenti cinesi negli Usa si caratterizzano per la diversificazione e perché per il 79% sono stati fatti da privati. Prima del 2013 nove investimenti su dieci erano nel campo dell’energia. Ma da allora gli appetiti del Dragone, scrivono Thilo Hanemann e Cassie Gao, si sono indirizzati verso i servizi e la manifattura avanzata: dall’alberghiero (il gruppo assicurativo Anbang ha acquisito la Strategic Hotel e la catena Hna la Carlson Hotels), fino all’intrattenimento (la conglomerata Wanda ha acquistato gli studi di produzione Legendary Entertainment), passando per la logistica, l’elettronica, i servizi finanziari.

Il cambio di prospettiva riflette la trasformazione in atto nella seconda economia del mondo. La crescita rallenta e lo farà in futuro. Poche settimane il presidente Xi Jinping ha aperto all’ipotesi che l’espansione del pil possa essere anche inferiore al 6,5%. Dello stesso parere è stato Huang Yiping, consigliere della People’s Bank o China, per il quale l’obiettivo di crescita dovrebbe essere compreso in una forchetta tra il 6 e il 7%.

L’attivismo negli Usa, primo beneficiario degli investimenti esteri diretti cinesi, risponde quindi alla necessità di modernizzare il proprio bagaglio di tecnologia e rafforzare marchi che abbiano la capacità di imporsi a livello globale. Con l’insediamento di Trump alla presidenza, il prossimo 20 gennaio, le società cinesi potrebbero tuttavia trovare maggiori ostacoli all’espansione negli Usa. Una delle domande da porsi, secondo Rhodium, è come cambieranno le valutazioni del Comitato sugli investimenti esteri sotto la nuova amministrazione.

Sia in campagna elettorale sia in questi due mesi di passaggio di consegne alla Casa Bianca, Trump ha scelto la via dello scontro con Pechino, accusata di manipolare lo yuan e contro la quale ha minacciato l’imposizione di pesanti dazi.

La politica del repubblicano è simboleggiata dalle scelte degli uomini nella sua amministrazione: consigliere per il Commercio sarà Peter Navarro, i cui libri e documentari hanno come soggetto il pericolo cinese. Un altro fattore da valutare sarà l’atteggiamento del Congresso, in mano ai repubblicani, dove crescono i timori per «potenziali rischi economici e alla sicurezza» legati alla presenza cinese e circola una proposta per rafforzare la supervisione sugli investimenti esteri. Sulla capacità di manovra degli imprenditori cinesi peseranno anche i controlli più stringenti di Pechino sulle operazioni di acquisizione e fusione e sui pagamenti transfrontalieri in yuan, pensati per arginare la fuga di capitai.

[Scritto per MF-Milano Finanza]