Dragonomics – Il diktat dell’urbanizzazione

In by Simone

Li Keqiang, futuro premier, indica l’urbanizzazione come via maestra per la crescita. Ma, nella Cina delle continue emergenze ambientali, non è un percorso facile. E intanto Pechino rimanda Kyoto 2, il nuovo trattato sul clima. Più urbanizzazione, più consumi, più inquinamento, anche nelle campagne. Li Keqiang, da marzo 2012 nuovo premier cinese su cui il Dragone scommette per il proprio rilancio economico, ha rivelato le sue linee guida di governo, proprio mentre la Cina ha tirato il freno a mano per il nuovo trattato sul clima, che dovrebbe sostituire quello di Kyoto.
Il legame tra i due eventi, ragionando in termini di modelli di sviluppo, è indissolubile. A parole, Li ha rilanciato il motto antico delle quattro modernizzazioni. Uno slogan, nella storia moderna della Cina, già utilizzato da Zhou Enlai in epoca maoista, da Deng Xiaoping all’avvio delle riforme di mercato e dai leader della quarta generazione nel 2005.
Di volta in volta il contenuto cambiava, e se nelle modernizzazioni di Zhou c’era l’agricoltura, in quella di Deng compariva il Prodotto interno lordo (Pil), fino ad arrivare alla “mercatizzazione” di Hu Jintao.

La ricetta di Li

Le quattro modernizzazioni di Li sono industrializzazione, innovazione tecnologica, urbanizzazione e modernizzazione dell’agricoltura. Almeno tre, se non tutte e quattro, riguardano il rapporto città-campagna e la sostenibilità ambientale.
L’obiettivo è trasformare la Cina da grande fabbrica del mondo a Paese evoluto, sviluppando il mercato interno e aumentandone la produttività.
Più innovazione significa meno carne da lavoro, anche perché il vantaggio demografico della Cina – enorme esercito industriale di riserva – si sta esaurendo, a causa della politica del figlio unico. Inoltre, investire nelle campagne, significa permettere un reddito decente anche ai contadini.
Peccato che, nel tentativo ambizioso di rendere i cinesi un po’ più ricchi e un po’ più eguali, l’accento sia posto ancora una volta sui processi di urbanizzazione: il motore della crescita che, nell’ultimo decennio, ha fatto schizzare la popolazione residente in città dal 39 al 51 per cento.

Il mito dell’urbanizzazione
Durante la presidenza di Hu Jintao, oltre 100 milioni di contadini si sono urbanizzati, allargando le megalopoli a scapito delle campagne.
Per Li, il trend non dovrà arrestarsi. "La percentuale di popolazione urbana della Cina è molto più bassa rispetto ai Paesi sviluppati", dove l’80 per cento degli umani vive già in città, ha dichiarato l’attuale vice-premier, precisando che "l’urbanizzazione non è un semplice aumento del numero dei residenti urbani o un ampliamento delle città", ma un "cambiamento radicale dallo stile rurale a quello urbano": una vera rivoluzione, "in termini di struttura industriale, dell’occupazione, dell’ambiente di vita e della sicurezza sociale".

Kyoto 2, Pechino rimanda
Cosa significhi tutto ciò è finora imperscrutabile. Di certo, la colonizzazione della campagna da parte della città, è una strategia che ha dato molto alla Cina, ma le ha tolto anche tanto, in termini di sostenibilità ambientale.
Il boom del gas serra è l’altra faccia della prodigiosa crescita del Pil e, in questa ottica, non è un caso se, questo autunno, la Cina ha chiesto che le trattative per Kyoto 2 inizino solo dopo che i Paesi sviluppati abbiano dato garanzie alle economie emergenti, sulla loro riduzione delle emissioni nocive di Co2 a partire dal 2013.
Prima di impegnarsi in un piano di abbattimento dei gas serra, Pechino vuole che i Paesi di antica industrializzazione abbattano seriamente i loro.
Il tira e molla non è una novità. Va avanti da diversi anni e l’aria non sembra essere cambiata, con il nuovo governo: primus inter pares tra gli Stati emergenti, il Dragone pilota e guida le richieste dei Brics, rifiutando di prendere lezioni da potenze come gli Usa, che non hanno aderito neanche al trattato di Kyoto del 2001.
Lasciateci arrivare al vostro livello di sviluppo, poi ne riparliamo, è il mantra di Pechino. In fondo, anche se, con 1,4 miliardi di abitanti, la Cina è il più grande produttore di gas serra mondiale, in termini pro-capite resta parecchie lunghezze indietro l’Occidente. Uno statunitense produce il triplo di gas serra di un cinese, un italiano una volta e mezzo in più.

Nimby secondo caratteristiche cinesi
Il guaio è che, ormai, sono gli stessi laobaixing, i cinesi qualunque, a contestare a Pechino il modello di sviluppo occidentale. O, quanto meno, le sue ricadute ambientali.
Figlio dello sviluppo accelerato, il nuovo ceto medio urbano ha iniziato a pensare alla qualità della vita e non vuole la spada di Damocle di concerie o centrali atomiche nel suo quartiere. Si tratta di un fenomeno simile a quello dei nostri nimby, acronimo per "not in my backyard", gente che non critica il modello di sviluppo in sé, ma non vuole pagarne le conseguenze.
Un mese fa, a Ningbo, città millenaria divenuta megalopoli, migliaia di residenti sono scesi in piazza per contestare l’ampliamento dell’impianto petrolchimico locale. Nella popolosa Wenzhou, sempre nello Zhejiang, gli abitanti si sono scontrati con la polizia per bloccare la costruzione di una centrale elettrica.
Nello Yunnan, i contadini si sono inginocchiati in autostrada di fronte al corteo di auto con a bordo il premier uscente Wen Jiabao. L’obiettivo era consegnargli una petizione contro la requisizione delle terre da cementificare, ma storie come questa ce ne sono a decine, ogni giorno, in ogni angolo della Cina.
La contestazione non è solo ambientale, ma politica, visto che, in Cina, la carriera dei funzionari locali procede a colpi di punti del Pil. Più si devasta il territorio, più sale il Pil, più avanza il segretario di turno.
Nei prossimi 10 anni Li, noto anche come apologeta dell’urbanizzazione sostenuta, dovrà spezzare anche questa catena.

[scritto per Lettera43]