Dragonomics – Banche: la terza incomoda

In by Simone

Usa irritati dalla scelta britannica di aderire alla alla nuova Asian Infrastructure Investment Bank a guida cinese, ma Washington deve soprattutto recriminare con se stessa. Genesi di un istituto di credito dove la Cina mette i soldi per finanziare soprattutto le proprie imprese e per cambiare il continente in cui si colloca al centro. La casa bianca ha pubblicamente criticato la scelta britannica di aderire alla nuova Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), accusando Londra di costante accomodamento con Pechino. Il Regno Unito è il primo e per ora unico Paese del G7 ad aderire all’istituto sino-centrico, acuendo le nevrosi di Washington, che vede violata la propria “special relationship” con Londra. Ma soprattutto, adesso che il Rubicone è varcato, altri alleati storici degli Usa entreranno nel nuovo istituto da 50 miliardi di dollari: la Nuova Zelanda l’ha già fatto, l’Australia lo sta per fare.
La Brookings Institution – antico think tank “non partisan”, cioè organico a qualsiasi tipo di governo Usa – non si lagna tanto per l’adesione britannica, quanto per il fatto che la mossa unilaterale di Londra spezza il fronte di coloro che stanno cercando di contrattare le migliori (per Washington e dintorni) condizioni di adesione alla banca, come Australia e Corea del Sud. Ma il punto è che ora nessuno vuol rimanere fuori dalla spartizione della torta, cioè da un istituto che è il terzo incomodo tra la Banca Mondiale, controllata dagli Usa, e la Asian Development Bank a guida giapponese.

Washington deve soprattutto recriminare su se stessa. Da anni, la Cina agisce da capofila dei Brics rivendicando più rappresentatività nelle istituzioni internazionali già esistenti, sia politiche sia finanziarie, figlie di un mondo in cui gli Usa erano la sola superpotenza e l’Occidente intercettava gran parte del Pil globale. Si scontra sempre con il rifiuto americano, nonostante Pechino abbia costantemente aumentato le proprie quote associative ai vari organismi.
Così, per esempio, nell’Asian Development Bank, la Cina è uno dei principali fornitori di capitale, ma ha una quota insignificante dei diritti di voto: il 5,47 per cento, rispetto al 15,7 e al 15,6 per cento di Giappone e Stati Uniti, rispettivamente. “E gli Stati Uniti hanno finora puntato i piedi contro l’attuazione di un accordo del 2010 che avrebbe dato alla Cina e ad altri Paesi in via di sviluppo una voce più consistente nella Banca Mondiale e nel FMI”, osserva Forbes.

La banca asiatica delle infrastrutture e degli investimenti è stata creata nell’ottobre 2014, ma l’idea era stata lanciata dal presidente Xi Jinping esattamente un anno prima, durante una serie di viaggi nel Sudest Asiatico e in Asia centrale, denominati “offensiva dello charme”. Ha venti Paesi aderenti e la Cina primus inter pares, Pechino seduce i vicini di casa con argomenti estremamente concreti: costruire la rete infrastrutturale di tutta l’area, vero cavallo di battaglia cinese.
L’idea di fondo è che per dare sviluppo alla regione si debba investire massicciamente nei collegamenti, sia fisici – strade e ferrovie – sia virtuali – la rete internet – sia energetici: gasdotti e oleodotti.

Attraverso le comunicazione si ridefinirà la catena di fornitura dell’Estremo oriente: non più la Cina “fabbrica del mondo” che esporta in Occidente, ma di nuovo Zhongguo, il Paese al centro del sistema imperiale degli Stati tributari. O per meglio dire, della sua versione contemporanea: sulle diverse reti, circoleranno merci, dati, intelligenza, geopolitica. Così, sarà più facile per le imprese del Dragone delocalizzare in Cambogia; oppure, per i patrimoni dei nuovi ricchi e i fondi di investimento prendere la via dell’hub malese e poi fluire nel business della finanza islamica.

La nuova banca si somma così al fondo per lo sviluppo della Via della Seta e alla banca dei Brics, entrambi da 40 miliardi di dollari.
La Cina non è solo il maggiore azionista. Finanzia soprattutto se stessa: sono infatti cinesi le imprese che costruiscono strade e ponti in tutto il mondo; sono cinesi le ferrovie veloci “pret-à-porter” esportate nei Paesi in via di sviluppo.
Nel suo focus sulle infrastrutture, la AIIB non è necessariamente in contraddizione con gli istituti già esistenti; anzi, può svolgere una funzione complementare e contribuire a reinvestire i capitali in eccesso che circolano nell’area. In uno studio del 2010 si stimava in 8mila miliardi di dollari l’investimento infrastrutturale necessario per l’intera area nel periodo 2010-2020. La Asian Development Bank (ADB) ne fornisce solo 10 miliardi l’anno, concentrandosi maggiormente sulla riduzione della povertà e i prestiti agevolati, così come la World Bank, osserva ancora Forbes.

Tuttavia, il rischio che la nuova AIIB si sovrapponga agli istituti già esistenti esiste. Se ci sarà uno smottamento di alleati storici degli Usa verso la nuova banca sino-centrica, il principale responsabile sarà però ancora una volta il ritardo di Washington nel comprendere la nascita di un mondo multipolare. L’australiano Stephen Grenville così osserva sull’altrettanto australiano Business Spectator:
“La regione ha già la ADB. Ha bisogno della AIIB, della nuova Development Bank dei BRICS e dell’iniziativa per la Nuova Via della Seta cinese? Probabilmente no. Ma il Giappone continua a monopolizzare il controllo della ADB (in cui Tokyo e Washington hanno ciascuno un diritto di voto più che doppio rispetto alla Cina e il presidente è sempre giapponese). Gli Stati Uniti dominano le istituzioni di Washington, con il Congresso americano che impedisce riforme anche modeste della governance del FMI. Dato questo contesto ossificato e poco accogliente, la ricerca cinese di alternative è inevitabile”.