Dragonomics – Aspettando Xi

In by Simone

A Washington, Cina e Stati Uniti si sono parlati per dire che si parleranno. Le discussione vere cominciano ora, dietro le quinte, in attesa dello sbarco negli Usa di Xi Jinping a settembre. In quella sede, forse, la Casa Bianca chiarirà anche la propria posizione verso la nuova banca asiatica creata da Pechino. Un tempo, lo scrivente aveva una ragazza che alle sei di pomeriggio telefonava a tutti gli amici – uno per uno – al solo scopo di dire loro che alle otto li avrebbe richiamati, per organizzare la serata. Quando finiva il giro di telefonate delle sei, era già ora di cominciare quello delle otto.
Lo scrivente chiede scusa per la nota personale, ma l’aneddoto risulta utile per spiegare l’appena concluso US-China Strategic and Economic Dialogue di Washington, appuntamento annuale giunto ormai alla sua settima edizione.
Statunitensi e cinesi si sono parlati per dire che si parleranno.

Come ampiamente preannunciato, i giochi veri si faranno dietro le quinte nel periodo che intercorre tra oggi e settembre (data precisa ancora ignota), quando Xi Jinping andrà in visita ufficiale negli Usa.
Nel frattempo, in un clima condizionato da considerazioni geopolitiche e di sicurezza, il dialogo è apparso molto poco dialogante su alcuni temi fondamentali di carattere economico. È come se i due contendenti si fossero detti: non siamo d’accordo su nulla, ma ne parliamo, ok?

C’erano in ballo due questioni spinose: la neonata Banca Asiatica delle infrastrutture e degli investimenti, a guida cinese (AIIB), che gli Usa avevano nei mesi scorsi cercato di boicottare per poi non aderirvi; e il Trattato di Libero Scambio Transpacifico promosso invece dalla Casa Bianca, che escluderebbe la Cina ma che per ora non decolla neppure con gli altri presunti partner. Queste vicende sono state quasi volutamente ignorate.
Del resto l’agenzia di stampa cinese Xinhua era fin dalla vigilia uscita con un editoriale per ribadire che Pechino e Washington devono concentrarsi su ciò che unisce e non su ciò che divide.

Tuttavia, anche il trattato di investimenti bilaterali tra i due Paesi, che si trascina da sette anni, non ha fatto grandi passi avanti. L’accordo dovrebbe aprire le due economie ai capitali della controparte in misura maggiore di oggi. Sappiamo quanto in Occidente siano ambiti i soldi cinesi – Stati Uniti compresi – e sappiamo anche quanto la Cina stia puntando su una nuova ondata di investimenti stranieri, come all’inizio degli anni Ottanta, per rilanciare la propria economia in fase di rallentamento. Non solo: con gli investimenti – si spera a Pechino e dintorni – dovrebbe arrivare anche quel travaso di tecnologia che permetterebbe il definitivo salto di qualità dell’economia cinese.

Tutti gli ingredienti per un gentleman agreement ci sarebbero, ma Washington e Pechino diffidano una dell’altra.
Così, se gli Stati Uniti sperano che i cinesi aprano ai propri investimenti soprattutto il settore finanziario e quello delle telecomunicazioni, la Cina frena, perché non vuole perderne il controllo. E sull’altro versante, gli americani sottopongono gli investimenti cinesi in casa propria a un monitoraggio particolare e continuo che non riservano invece ad altri Paesi. Per ragioni di sicurezza, dicono loro. Questi controlli hanno già fatto naufragare parecchi accordi in quasi tutti i settori, dalle infrastrutture alle telecomunicazioni, fino ai parchi eolici.

In conclusione del summit, il vice premier cinese Wang Yang, capo delegazione a Washington, ha dichiarato oggi che le due parti assegnano massima priorità al trattato e che quindi cercheranno in futuro di venirsi più incontro sulla cosiddetta "lista negativa" di settori chiusi agli investimenti. Appunto, in futuro. Per ora, i due contendenti hanno semplicemente preso atto di avere idee molto diverse su quali settori si possono aprire agli investimenti altrui e quali no.

Washington, in teoria, ha un asso nella manica. L’anno prossimo, dopo 15 anni di presenza nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Cina dovrebbe acquisire lo status di economia di mercato. Secondo alcune interpretazioni, questo status non è automatico ma vincolato al beneplacito degli altri attori coinvolti, come gli Stati Uniti, appunto, e l’Unione Europea.
L’Europa al momento – pensate un po’ – è divisa. A seconda dei propri interessi particolari, “latini” e “germanici” non sono (ancora?) allineati sull’ipotesi di accogliere o meno la Cina tra le economie di mercato. Gli Stati Uniti stanno invece cercando di capire come utilizzare questa arma per esercitare pressioni. Ma la verità vera è che nell’economa mondiale, ormai, è difficile fare a meno della Cina.

Seconda economia mondiale in termini volumetrici, ma non solo. Per la prima volta a memoria d’uomo, la Cina si sta proiettando all’esterno in quanto superpotenza politica: sia in termini propositivi – la Via della Seta – sia in termini muscolari, con le proprie navi che partecipano a pattugliamenti in mari lontani e le questioni aperte nel Mar Cinese Meridionale.
Per questo motivo, la diffidenza Usa nei confronti della AIIB ruota attorno a due quesiti: è davvero utile da un punto di vista economico? Se non lo è, dobbiamo concludere che sia invece solo un tentacolo politico di Pechino verso Occidente?

Un economista di primo piano della Asian Development Bank, che vuole mantenere l’anonimato ma che va a fare le pulci ai governi di Eurasia da circa un quarto di secolo, ci ha espresso tutti i suoi dubbi sul progetto Via della Seta e quindi sulla AIIB come strumento principale per finanziarla. La Cina cosa diavolo vuole esportare in Asia Centrale – dice in soldoni il nostro Mister X – dove ci sono solo mercati incapaci di assorbire sia le sue merci sia la sua sovrapproduzione di acciaio e cemento? Vuole arrivare in Europa? Ma lì conviene e converrà sempre di più esportare via nave, altro che ferrovia. Non dimentichiamo, infine, che il ritiro dei ghiacci artici renderà sempre più praticabile la rotta a nord-est tra Atlantico e Pacifico: quella che passa sopra la Siberia e che, guarda caso, è totalmente ignorata da tutta la pubblicistica cinese sulla Via della Seta.
La sua conclusione, è che la Cina voglia esportare soprattutto smart power (prendete nota che ormai siamo oltre l’hard-power delle armi e il soft-power dello charme; lo smart power è una sintesi tra il secondo e le solide ragioni della moneta, pronta a subentrare quando lo charme si rivela non abbastanza charmante).

È di oggi l’indiscrezione che Obama chiarirà la posizione degli Stati Uniti rispetto alla AIIB nel summit di settembre con Xi Jinping. Ci sono due mesi e poco più per rispondere al quesito: a che serve?