Dragonomics – Alibaba goes America

In by Gabriele Battaglia

Il gigante dell’e-commerce si quota in America sia per fare concorrenza ad Amazon a casa sua, sia per rafforzarsi in vista della lotta con le altre due grandi imprese IT cinesi: Baidu e Tencent. L’Opa a Wall-Street fa parte di un piano a tutto tondo che potrebbe trasformare il marketplace creato da Jack Ma in un vero e proprio retailer. Ma occhio alle banche. Se si chiede a cinque diversi esperti di internet in China perché Alibaba si stia quotando a Wall Street, si avranno probabilmente cinque risposte diverse. Due però sembrano le più interessanti (e semplici):
Alibaba vuole fare concorrenza ad Amazon a casa sua;
Alibaba vuole fare cassa per competere sul mercato interno cinese, il più promettente del mondo. Sono entrambe plausibili e non in contraddizione tra loro.

La strategia del gigante dell’ecommerce cinese sulla strada dell’Opa, che secondo i media potrebbe far impallidire quella di Facebook del 2012, trasuda cautela che manco l’arte della guerra di Sun-Tzu. Il motivo è semplice ed è proprio l’esempio di Facebook a fare da monito: la sua offerta iniziale, sovrastimata, fu un flop. Poi si riprese (oggi il suo valore di mercato si aggira sui 150 miliardi di dollari), ma perché rischiare? pensano ad Alibaba. Si aggiunga che le altre imprese IT cinesi sono in trend negativo sia sul mercato di Hong Kong sia a Wall Street.
Così, la compagnia di Jack Ma ha deciso di mettere sul mercato azioni per un solo miliardo di dollari. Alle fine dell’Opa – dicono gli esperti – vedrete che il valore del pacchetto si aggirerà di fatto sui 15-20 miliardi di dollari, per una capitalizzazione di mercato finale compresa tra i 150 e i 200 (110 secondo il prospetto presentato dalla stessa Alibaba). Staremo a vedere.

In realtà ci si aspetta molto da “Alibaba goes America”, anche perché gli investitori Usa sono sempre più interessati al mercato cinese. Dall’inizio degli anni Duemila a oggi, le quote azionarie di imprese cinesi sono passate da una percentuale dello 0,5 a quasi il 2,5 per cento sul totale di quelle possedute dagli statunitensi all’estero. Secondo dati del Fmi, a fine 2012 gli americani possedevano azioni del Dragone per un totale di 120 miliardi di dollari.
È cavalcando questo quadro di maggiore fiducia – il mercato arriva dove la politica non ce la fa – che Alibaba spera ora di fare concorrenza ad Amazon proprio a casa sua.

La strategia è stata preparata con cura. La compagnia che rappresenta l’80 per cento dell’ecommerce cinese, ha due sussidiarie negli Usa: Vendio e Auctiva, che hanno lanciato 11 Main (11main.com), un sito di shopping online che offre “interessanti, prodotti di qualità” che spaziano dalla moda alla tecnologia e ai gioielli. Ha poi acquisito anche ShopRunner, sito leader delle vendite al dettaglio. La differenza con Amazon è per altro chiara. La compagnia di Jeff Bezos è un retailer – vende roba – mentre quella di Jack Ma è un marketplace, uno spazio dove domanda e offerta si incontrano. Questo, a detta di alcuni esperti, avvantaggerebbe Alibaba, che ha un modello di business più lineare (senza magazzino e così via).
C’è poi un aspetto psicologico-finanziario: finora, nel mondo occidentale, Amazon godeva pressoché di un monopolio. L’arrivo di un altro player delle dimensioni di Alibaba può fare da catalizzatore per eventuali investitori (stiamo parlando di azioni) e quindi sottrarre preziose risorse per la crescita futura dell’ex monopolista. Lo stock di Amazon ha già perso circa 100 punti da inizio anno, circa un 25 per cento del valore. E questo, nonostante l’impresa sia in salute e continui a espandersi. Ma a un ritmo inferiore rispetto ad Alibaba.

Sul fronte interno cinese, il gigante dell’ecommerce è animato da attivismo quasi anfetaminico.
Di recente, è per esempio riuscito a farsi includere tra i beneficiari del programma pilota, lanciato nel 2013 dal governo di Pechino, che consente alle aziende private di acquistare servizi all’ingrosso da China Mobile, China Unicom e China Telecom. Cioè, in pratica, una liberalizzazione sotto traccia (per un numero limitato di operatori): come fanno dalle nostre parti le tlc private con “mamma Telecom”, anche Alibaba potrà comprare “rete” da una delle “Big Three” e offrire servizi concorrenziali.
E quanto ai servizi, sta dandosi da fare per differenziare la propria offerta. Ad aprile, ha registrato una propria società cinematografica a Hong Kong, la Alibaba Pictures Group, che ha già speso più di 3 miliardi di dollari in investimenti cinematografici e televisivi, tra cui l’acquisto di una partecipazione nel leader cinese dei video online, Youku Tudou (il “YouTube cinese”), nella televisione via cavo e internet Wasu Media e nel Chinavision Media Group, una media-company a 360 gradi, che spazia dalla vendita di diritti cinematografici e televisivi alla distribuzione di giornali, passando per l’entertainment su reti mobile e la pubblicità.
È chiaro il quadro? Il marketplace potrebbe diventare presto un retailer, secondo il modello Amazon. In Cina, fino a poco tempo fa, i tre giganti internet – Baidu, Tencent e, appunto, Alibaba – si dividevano la posta: il primo era il motore di ricerca, il secondo il gioco online, il terzo l’ecommerce. Ma il progressivo spostamento degli utenti cinesi dal personal computer ai device mobili fa convergere i “tre regni” verso un solo obiettivo, per il quale competono alla morte: rastrellare il maggior numero di startup innovative nel campo dei social network, delle app e dei video.

Da questa partita a scacchi su due fronti che si potenziano a vicenda, Alibaba si aspetta di battere la concorrenza interna ed esterna. Una strada in discesa? Non necessariamente.
Il gigante tecnologico che in teoria corrisponde perfettamente al tentativo della leadership cinese di creare un nuovo modello di sviluppo (innovazione più sostenibilità), rischia di pestare i piedi sbagliati. In questo caso, le banche.
Il sistema finanziario cinese è incentrato sui grandi istituti di Stato, che offrono interessi bassi sui depositi per favorire le grandi imprese, anche loro di Stato, che così accedono a un credito “calmierato”. Gli interessi sono stabiliti politicamente, generalmente intorno al 3 per cento, e chi ci perde sono i piccoli risparmiatori che vedono i propri depositi rivalutarsi meno dell’inflazione. Ed ecco Alibaba, che l’estate scorsa lancia Yu’ebao, un prodotto che funziona più o meno come un libretto di risparmio tradizionale: investe nei mercati e restituisce interessi. Ma può offrire tassi di rendimento superiori a quelli delle banche – intorno al 7 per cento – perché non è soggetto alla stessa normativa rigorosa. Inoltre, non deve mettere da parte riserve come forma di assicurazione contro le tendenze ribassiste.
Grazie a questo vantaggio concorrenziale enorme, Yu’ebao è diventato il più grande fondo della Cina in pochi mesi, attirando 60 milioni di correntisti, per un totale di 400 miliardi di yuan (47 miliardi di euro). La mancanza di regolamentazione a esclusivo vantaggio del nuovo prodotto privato ha scatenato enormi lamentele da parte delle banche tradizionali, trasformatesi in un battito di ciglia da monopoliste a player svantaggiati. Così, pare che ora la banca centrale cinese imporrà la riserva obbligatoria anche al prodotto di Alibaba. Questo costringerà quasi sicuramente Yu’ebao ad abbassare i tassi di rendimento che, tanto per cominciare, sono già scesi: adesso si aggirano sul 5 per cento e sono alla portata di nuovi prodotti allo studio delle banche tradizionali.

Bisogna poi comprendere quali sono i problemi che una IT così anomala – perché cinese – potrebbe incontrare sui mercati statunitensi. Il sito d’informazione economica Quartz cita il fatto che Alibaba dipende al cento per cento dalla rete internet del suo Paese e quindi dal governo, mentre d’altra parte la censura potrebbe creare problemi per eventuali contenuti inseriti sulla piattaforma di ecommerce. Inoltre, il non chiaro quadro legale cinese potrebbe generare ulteriore diffidenza da parte del pubblico Usa.
A questi problemi va aggiunta la barriera psicologica che incontra il made in China quando sbarca in Occidente. Insomma, vai su Amazon e ti senti garantito, vai su Alibaba e chi lo sa. In realtà, l’occidentale che vive in Cina compra ormai su Taobao qualsiasi cosa: dalle sedie d’ufficio, ai coupon per il salone di bellezza; dalle sementi, a intermediari che facciano la fila al posto tuo da qualche parte. E poi Alibaba negli Usa non venderà necessariamente prodotti cinesi, ma quello che conta è l’immaginario collettivo.
Tutte queste incognite giustificano la cauta programmazione dell’Opa in terra Usa. A differenza del suo omonimo della fiaba, Alibaba non sembra intenzionato ad ammassare una fortuna in un colpo solo.

[Scritto per Linkiesta]