Il documentario autoprodotto della giornalista Chai Jing denuncia le conseguenze nefaste dello smog e ci si chiede come mai sia libero di circolare anche sui media di Stato. Potrebbe essere il segnale che la leadership cinese desidera davvero "areare i locali". Del resto, la nuvolona fuligginosa potrebbe tra non molto trasferirsi altrove. Da sabato non si parla d’altro: la nota giornalista televisiva Chai Jing ha presentato il suo documentario autofinanziato, Qiongding zhi xia (Under the Dome). In due giorni, il film ha già totalizzato oltre 60 milioni di visioni su diverse piattaforme ed è diventato tema caldo su tutti i social network.
È la denuncia della società carbone-centrica cinese fatta da una madre – lei stessa – che scopre durante la gravidanza di avere in grembo una bambina già malata di tumore, sebbene ancora allo stato fetale. È il 2013, Chai lascia la Tv di Stato CCTV, dove ha lavorato dieci anni ed è volto notissimo, partorisce negli Stati Uniti – attirando polemiche e accuse di anti-patriottismo – e si dedica alle cure della neonata, che ora starebbe bene.
La giornalista-madre non ha dubbi: la malattia di sua figlia è dovuta alle alterazioni biologiche, indotte dall’inquinamento, che lei stessa le ha trasmesso. Sul banco degli imputati, la nuvola fuligginosa che avvolge la Cina, soprattutto il suo Shanxi natio: carbone.
Il film non dice granché di nuovo. È strutturato come un TED Talk – quelle conferenze in cui l’oratore munito di microfono parla da un palco a un pubblico mesmerizzato – o, se preferite, come An Inconvenient Truth di Al Gore.
Fa niente se il documentario si conclude con un appello della giornalista a una presa di coscienza collettiva, dal basso, affinché tutti “facciano qualcosa” e prendano il destino nelle proprie mani; cioè quel genere di manifestazioni della società civile che fa tremar le vene e i polsi al potere cinese. Ma finora (48 ore dopo il lancio del documentario) non è scattata nessuna censura, anche se le ultime indiscrezioni dicono di una direttiva che imporrebbe di monitorare da vicino lil dibattito online. Anzi, il Quotidiano del Popolo ha ripreso e rilanciato il video di Chai Jing sia sul suo account Weibo sia sul suo sito.
Perché dunque – si chiedono molti – lo stesso sistema ci dice, o ci lascia dire, queste cose? E proprio alla vigilia del Lianghui, la doppia sessione dei “parlamenti” cinesi (il Congresso Nazionale del Popolo e la Conferenza Politica Consultiva) che di solito ratifica le grandi decisioni politiche e che inizia martedì?
Un segnale è arrivato a Chunjie, il capodanno cinese. Per la prima volta da molti anni, i minatori di carbone dello Shaanxi (da non confondere con lo Shanxi dove è nata Chai Jing) sono andati in ferie. L’Associazione Nazionale dell’industria del carbone ha infatti accettato la proposta avanzata da quindici aziende minerarie che hanno concesso ai loro dipendenti una vacanza – addirittura pagata – di alcuni giorni.
All’origine di tale illuminazione welfarista, non c’è però qualche conquista sindacale, bensì il fatto che l’industria carbonifera è da tempo in sovrapproduzione, anche e soprattutto a causa dei tagli nei consumi imposti dallo stesso governo. Che lo fa proprio per ragioni ambientali. Ma non solo: è tutta l’industria pesante che ha rallentato, c’è sempre meno bisogno di energia fossile. E poi, nel "grande sogno cinese", il Paese dovrà sempre più diventare una società dei consumi e delle produzione evolute, tecnologiche, pulite.
La domanda cala, dicono gli industriali del settore, tanto vale spedire i minatori in ferie a Chunjie. Oggi, le previsioni per il settore sono proprio nere come il carbone stesso e difficilmente, si dice, tornerà il glorioso 2012, anno del picco sia della produzione sia dei prezzi.
Certo, il motore dell’economia cinese viaggia ancora a carbone, l’unica materia prima di cui il Paese ha davvero abbondanza: secondo i dati diffusi venerdì scorso dall’Ufficio Nazionale di Statistica, rappresenta ancora il 66 per cento del consumo totale di energia, mentre le fonti pulite stanno al 16,9 per cento. Ma lo scorso novembre, per la prima volta, Pechino si è impegnata in maniera vincolante ad abbattere le proprie emissioni nello storico accordo sul clima stretto con gli Usa, a margine del vertice Apec. Così, pare, si è già cominciato a chiudere o multare le centrali elettriche più inefficienti e nella capitale, che si trova al centro dell’area più inquinata del Paese, pare che il consumo di carbone sia già diminuito del 7 per cento nel corso del 2014.
Tuttavia, nonostante le misure cinesi, il prezzo internazionale della materia prima non sta calando. Anzi, esperti di materie prime dicono che dal punto di vista della redditività, il carbone potrebbe diventare la vera sorpresa del 2015.
A procrastinare le sue ininterrotte fortune ci sarebbe ora la domanda indiana, che si starebbe sostituendo a quella cinese, soprattutto dopo l’elezione del Primo ministro Narendra Modi, che ai cosiddetti analisti sembra piuttosto propenso a favorire gli interessi industriali, anche a scapito di quelli collettivi. A ragione o a torto, molti vedono nell’India le stesse condizioni che aveva la Cina prima del suo grande boom: carenza di infrastrutture e una popolazione in rapida urbanizzazione. Il che dovrebbe portare a un superciclo delle materie prime.
Il consumo di energia elettrica in India è destinato a crescere di quasi la metà nei prossimi cinque anni – si dice – e da qui al 2019 il subcontinente potrebbe sostituire la Cina come maggiore importatore mondiale di carbone.
Insomma, la nuvolona fuligginosa che affligge le nostre giornate pechinesi, forse cambierà di residenza per scelte politiche e tendenze dell’economia globale. Nel frattempo, si può cominciare a parlarne male, come fa il documentario di Chai Jing.