Intervista a Jia Zhangke, uno dei principali registi contemporanei cinesi. Nel 2006 è stato premiato a Venezia con il Leone d’oro per il suo film Still Life. Oggi è tornato in Italia, ospitato dal festival di cinema asiatico “AsiaticaFilmMediale” (XI edizione), per l’anteprima italiana del suo ultimo lavoro, intitolato I wish I knew.
Shanghai somiglia a un insieme di immaginari sovrapposti, uno dei volti più rappresentativi del Novecento cinese. Ha fatto da sfondo a moltissime vicende, individuali e collettive. I wish I knew è la storia di una città attraverso delle vite raccontate, una fotocamera fissa sul suo passato remoto e recente.
Una storia che ha senso raccontare oggi, come afferma il regista Jia Zhangke, nell’anno 2010, lo stesso in cui la città di Shanghai ha celebrato il futuro della Cina ospitando la monumentale World Expo. Per ricordare che senza passato non può esistere alcun futuro.
Non è un’associazione scontata in un paese come la Cina di oggi, dove la storia ha solo una versione senza interpretazioni alternative. Dove la memoria del dolore umano viene cancellata per un interesse di partito o nel nome dello sviluppo economico. Per questo è importante rievocare storie sommerse, le fughe a Taiwan o a Hong Kong della Cina “capitalista” all’indomani del 1949; o le repressioni durante la Rivoluzione culturale. Storie di rivoluzione, scritte da chi è stato sconfitto e da chi ne è figlio.
Jia Zhangke ha deciso di ascoltare diciotto testimonianze viventi, ricordi e memorie che attraverso il proprio vissuto individuale illuminano la storia di Shanghai dal 1933 ad oggi. Figli di generali nazionalisti e rivoluzionari comunisti, attrici e registi, fino a Han Han, classe ’82, scrittore e blogger più letto al mondo. Le rievocazioni sono unite da uno sguardo esterno, quello di Zhao Tao, attrice musa del regista, spettatrice smarrita delle trasformazioni di una città in continua transizione. Uno sguardo vagante lungo il fiume Huangpu, staccato dalle vivide storie raccontate ma anche parte di esse, unito a loro nell’osservare gli effetti dello scorrere del tempo sulla vita delle persone.
Le voci non ascoltate e quelle azzittite. Quasi una missione per quello che è oggi tra i registi contemporanei più importanti in Cina. Jia Zhangke iniziò la sua carriera nel 1997, Xiao Wu, Platform e Unknown Pleasure sono i titoli che lo hanno reso celebre all’estero. Film indipendenti, girati senza autorizzazioni e di nascosto da occhi indiscreti. Film senza distribuzione in Cina ma che, arrivati a Cannes e a Venezia, hanno incontrato un riconoscimento unanime da parte della critica internazionale. A colpire nelle prime opere di Jia Zhangke era la veridicità della sua Cina, delle fotografie realiste, quasi documentaristiche, di piccole realtà metropolitane tra gli anni ’80 e ’90.
Una società particolare, quella delle città di provincia cinesi di allora. Passate d’improvviso dal maoismo al mercato, di una gioventù sbandata, alienata ed emarginata dall’improvvisa legittimazione dell’individualismo capitalistico.
Realismo sociale e storia, sono questi i punti di ritorno costanti dell’arte di Jia Zhangke. Il salto non è però così grande come sembra, la società e la storia sono unite dal fatto che entrambe racchiudono in sé la trasformazione.
La sensibilità di Jia Zhangke è sempre votata alle conseguenze, a volte drammatiche, spesso alienanti, dei cambiamenti sociali e politici sulle vite delle persone. Un film sulla storia di Shanghai attraverso i racconti delle vite di alcune persone può sembrare strano a un pubblico straniero, difficile da penetrare nella sua ispirazione. Ma le esigenze di Jia Zhangke sono molto simili a ciò che lo aveva animato nei primi film da lui diretti.
«Per me era molto importante filmare una Shanghai che i cinesi non conoscono. La mia principale intenzione era di rivolgermi a chi non è familiare con la storia di Shanghai; a chi non conosce i cambiamenti, i movimenti, le guerre e le calamità –politiche e create dall’uomo- che vi sono avvenute dal 1933 ad oggi. E poi l’influenza che hanno avuto sulla vita degli individui. Questi aspetti in Cina sono sconosciuti, quello che ho voluto fare è stato un lavoro di riempimento di un vuoto, perché molti degli eventi di cui parla il film ufficialmente non possono essere discussi, non è consentito farli emergere. Questo per me è un film sovversivo, perché in passato nella cultura cinese non ci sono state simili narrazioni, questa credo sia la principale missione di questo film».
Il 2004 è un anno di cambiamenti importanti per Jia Zhangke. Esce The World, il suo primo film autorizzato dal governo cinese. Da allora il regista ha girato altri tre film, ottenendo il Leone d’oro con Still Life (2006), a cui è seguito 24 City (2008), ambiziosa storia della chiusura di una fabbrica statale di Chengdu, e I wish I knew (2010). Film diversi dai primi girati, che pur rivelando chiaramente l’anima del regista, evidenziano il passaggio dall’underground alla luce.
Jia Zhangke non ama le allusioni ad un suo avvicinamento al mercato. Quando gli viene chiesto come sia cambiato il suo approccio alla regia dopo il riconoscimento delle autorità, è abituato a rispondere che a cambiare non è stato lui, ma l’atteggiamento delle autorità verso i suoi lavori.
Gli ultimi film lo hanno invece messo in contatto con altri luoghi della Cina, allontanandolo dalla provincia d’origine dello Shanxi, una “scenografia” reale che era divenuto un segno distintivo del suo cinema. Ma quelle contraddizioni sociali in cui era cresciuto e che avevano suscitato il suo interesse si sono costantemente riproposte nei suoi spostamenti.
«In realtà non ho mai abbandonato la mia vita passata, so costantemente quello che accade nello Shanxi. Perché anche se dopo ho girato a Chengdu, alle tre gole o a Shanghai è perché al mio sguardo erano uguali allo Shanxi. L’unica cosa diversa è che nello Shanxi non c’era la grande diga delle tre gole o non ho trovato la fabbrica che era a Chengdu. Ma in realtà queste storie sono tutte uguali, perché sono dentro uno stesso sistema. La società cinese dopo il 1949 è stata unificata, e in Cina unificare ha significato uniformare. Poi nel tessuto sociale cinese senz’altro ci sono stati cambiamenti. Ma il fatto è che io vivo in Cina e ogni giorno sono colpito dai suoi cambiamenti, per cui questi cambiamenti non possono abbandonarmi, so ancora di che tipo di società si tratta, per me non è come trovarmi davanti a una persona sconosciuta».
Nei suoi film, quello con le autorità cinesi è un rapporto non pronunciato. Le opere di Jia Zhangke non sfidano il partito criticando direttamente il regime, ma dando voce a versioni alternative al processo di sviluppo cinese, spesso marginalizzate da esso: «faccio questo tipo di film perché in realtà in Cina non si parla molto di queste vite, non è permesso e non si è incoraggiati a farlo, per cui mi interesso molto a questo tipo di questioni. Inoltre anch’io sono nato in questo genere di ambiente e credo anch’io di appartenere a tutto ciò».
Le parole del regista però sono senza veli: nel dibattito sociale e politico interno alla Cina ritiene centrali le questioni della democratizzazione e dei diritti umani, mentre la considerazione dell’incessante sviluppo economico cinese è tutt’altro che orgogliosa.
«Ovviamente il processo di sviluppo ha una sua funzione giustificabile, che è nella dedizione al rafforzamento dell’intera Cina, o nello sviluppo delle grandi città. Ma noi che viviamo in Cina non ci identifichiamo troppo nel fattore dei risultati economici, perché quelli dell’economia cinese sono successi basati sulla quantità. Il divario tra ricchi e poveri, ad esempio, è un problema della nostra società; la ricchezza prodotta non concede alle persone di ricevere profitto. In questi ultimi due anni ho continuamente evidenziato il problema della povertà in Cina, la Cina di fatto non è ancora un paese ricco. Le province settentrionali si trovano ancora in una condizione di estrema povertà.
La Cina nell’insieme è molto grande, perciò ognuno può identificarsi in una Cina diversa. Io sono piuttosto preoccupato per quella parte di Cina povera, perciò non sono assolutamente d’accordo nel dire che la Cina sia già un paese dotato di un modello economico di successo».
Spostando l’attenzione sul clima culturale cinese, il suo tono non cambia: se da un lato denuncia l’appiattimento culturale nell’assoluta maggioranza dei centri urbani cinesi, d’altro canto ha una grande considerazione del fermento che si respira a Pechino, ma ancora una volta il principale valore è nell’indipendenza di vedute, con tutto quello che questo può comportare, politicamente e materialmente. «Credo che a Pechino esista una cultura ribelle. Questo è l’aspetto di maggiore valore, perché ci sono ancora molte persone che adottano un tipo di pensiero molto indipendente per manifestare i propri punti di vista. Questi lavori subiscono diversi limitazioni e probabilmente dal punto di vista materiale ed economico sussistono molte difficoltà; ma il valore di Pechino è proprio nel convogliare artisti di questo genere, in grado di dar vita a questo tipo di cultura. Le altre città non hanno la stessa dimensione».
Il suo giudizio sul cinema cinese degli ultimi anni è invece maggiormente critico: malgrado il dinamismo ed il recente fermento, stenta ad individuare prodotti di valore in grado di emergere sugli altri; piuttosto che ricondurre il problema all’assenza di condizioni economiche, non esita a parlare di questioni inerenti alla «creatività» e all’incapacità da parte dei nuovi prodotti cinematografici a proporsi in modo «rappresentativo».
Il percorso formativo di Jia Zhangke ha mosso dal cinema sovietico e giapponese per arrivare a quello francese e al neorealismo italiano. Cresciuto nella Cina post-maoista, la componente sociale è nel suo stesso patrimonio genetico, personale e professionale; tuttavia la sua opera non vuole esaurirsi in un semplice intento documentaristico, tra i registi che ama e hanno influenzato la sua identità artistica egli indica non solo De Sica, ma anche Antonioni e Fellini.
A conferma di ciò, sostiene senza sorpresa di considerare la funzione descrittiva sociale e quella creativa artistica come complementari all’interno della sua arte cinematografica. «Io ritengo che questi due aspetti non siano né opposti né contraddittori, ma due componenti di un’unità. Penso che i film che voglio realizzare abbiano a che fare con l’epoca in cui sono cresciuto, poiché nel mio processo di formazione la Cina si è imbattuta in cambiamenti molto violenti, che hanno influenzato molte persone differenti. Ma io sono un regista cinematografico e non un sociologo, tutte le vedute che esprimo sulle persone e sulla società devono fare ricorso ad un procedimento estetico, devono passare attraverso la pellicola per poter prendere forma. È per questo che sono alla costante ricerca di un mio linguaggio cinematografico, in grado di dare forma alla mia arte, che possa esprimere ciò che più mi sta a cuore. Penso che per un regista questi due aspetti siano ugualmente importanti nel suo lavoro».
Infine cinema e musica, musica nel cinema. Un rapporto complesso ed essenziale che spesso risulta imprescindibile:
«Credo che nel cinema la musica sia in gran parte una forma narrativa in grado di completare il mondo interiore dei personaggi. Ci sono molte cose che non si ha modo di dire attraverso un copione ma che puoi esprimere con la musica. È una prosecuzione, un’estensione dei sentimenti. Poi nei miei film è anche il segno di un’epoca, perché utilizzo molte canzoni che ricordano allo spettatore un periodo preciso. In Cina, dagli anni ’80 in poi, ogni anno ci sono sempre state delle canzoni pop strettamente legate ai cambiamenti sociali cinesi, canzoni che rappresentano quel tipo di società. Per cui si tratta di una parte di memoria, il modo più facile per restituire un ricordo, una chiave in grado di aprire la memoria».
Filmografia:
Xiao Wu (小武, 1997)
Platform (站台, 2000)
Unknown Pleasures (任逍遥, 2002)
The World (世界, 2004)
Still Life (三峡好人, 2006)
24 City (二十四城记, 2008)
I Wish I Know (海上传奇, 2010)