Non avrà il fascino della rivisitazione di Andy Warhol del ritratto del Grande Timoniere che campeggia all’entrata della Città Proibita, ma per settimane il volto di Barack Obama incorniciato da un cappello con la stella rossa e il colletto di un’uniforme maoista ha attratto l’attenzione del mondo intero. Era il fenomeno ‘Oba-mao’. A novembre di un anno fa, nei giorni precedenti la prima visita del presidente americano in Cina, le magliette con l’icona, ideata da un artista di nome Liu Mingjie, spopolavano tra le bancarelle e i negozi di souvenir di Pechino.
Un mese prima, a sorpresa, il presidente era stato insignito del premio Nobel per Pace. Per evitare qualsiasi possibile imbarazzo durante il viaggio, le immagini di Obama in versione guardia rossa furono messe al bando dal governo cinese e scomparvero dalle strade della capitale. Dal canto suo lui sembrò voler rendere onore al riconoscimento appena ricevuto con un discorso davanti alla platea di trecento giovani scelti dal governo. “I diritti umani dovrebbero essere garantiti a tutti quanti, si tratti di minoranze etniche o religiose, tanto che vivano negli Stati Uniti, in Cina o altrove”, disse, con più di un accenno alla libertà d’espressione e alla partecipazione politica come valori universali.
Nello stesso discorso accennò anche al progetto per facilitare gli scambi studenteschi tra i due Paesi. L’obbiettivo: far studiare almeno 100mila americani in Cina nei prossimi quattro anni. Un anno dopo l’amministrazione pechinese si è detta disposta a ricevere oltre 129mila studenti stranieri in dieci anni. D’altronde il governo punta sugli universitari ‘laowai’ per far guadagnare prestigio ai propri atenei. Nella sola capitale sono 71mila, ma entro il 2020 dovrebbero arrivare a 200mila. “Quale miglior messaggio per i cinesi se non mandare i nostri figli a studiare da loro”, ha commentato Kurt Campbell, responsabile per l’Asia orientale e per il Pacifico del Dipartimento di Stato americano, intervistato dal sito ‘Shanghaiist’. “Gli scambi studenteschi possono aiutare la comprensione reciproca”, gli ha fatto eco il professor Zhu Feng dell’Università di Pechino.
Entrambi i Paesi concordano sulla necessità di conoscersi meglio. Chi sa però se tra gli studenti interessati allo studio del mandarino non ci siano dei nuovi Glenn Shriver. Il suo volto non è noto, ma forse apparirà presto, tracciato a matita, nelle illustrazioni che accompagnano gli articoli sui processi negli Usa. Ventotto anni, dodici mesi trascorsi a Shanghai per perfezionare la lingua, Shriver è stato condannato a due anni di carcere con l’accusa di cospirazione per aver passato informazioni segrete alla Cina. Tra il 2004 e il 2007 si sarebbe incontrato almeno 20 volte con gli agenti cinesi. Il primo approccio fu per scrivere un saggio sulle relazioni tra Washington e Pechino. L’accordo prevedeva anche che il ragazzo trovasse lavoro nell’amministrazione pubblica statunitense. Un tentativo fallito per ben due volte, ma che fruttò al giovane Shiver 50mila euro. “Tutte menzogne basate su prove false”, ha commentato Pechino.
Un caso quasi speculare a quello del geologo Xue Feng. Formatosi a Houston e naturalizzato statunitense, è stato condannato a otto anni di carcere per aver violato il segreto di Stato. Xue fu fermato dalla polizia nel 2007 per aver accettato di vendere all’azienda americana per cui lavorava -la IHS Energy- un archivio contenente informazioni sulle compagnie petrolifere cinesi. In sua difesa ha sempre sostenuto che tutti i dati erano di dominio pubblico al momento dell’acquisizione. Ma su tutta la vicenda pesa il vasto campo di argomenti cui può essere applicato il concetto di segreto di Stato: dalle informazioni sulle compagnie petrolifere, come in questo caso, ai nomi degli scolari morti nel terremoto del 2008. Con questa accusa sono infatti finiti in carcere attivisti come Huang Qi o Tan Zuoren.
Dalla visita di Obama in poi le relazioni tra i due Paesi hanno subito più di una battuta d’arresto. La prima proprio a ridosso della consegna del Nobel al presidente lo scorso dicembre. “Premio Nobel per la Pace vende armi” titolava senza mezze misure l’edizione in lingua inglese del quotidiano ‘Global Times’, una delle voci ufficiali di Pechino. Sotto accusa il possibile accordo tra Washington e Taipei per la vendita di nuove armi statunitensi a Taiwan, che iniziò a far vacillare la luna di miele tra le due potenze. E poi ancora le polemiche sulle rivalutazione dello yuan. O ancora sull’affaire Google, iniziate a gennaio, quando Mountain View accusò la Cina di essere dietro una serie di attacchi informatici contro le caselle postali di alcuni dissidenti e di aver violato i segreti industriali di almeno trenta società statunitensi. Per mesi si gridò alla resa di Google in Cina. Il tutto ben descritto dalle immagini che mostravano file di cinesi intenti a posare mazzi di fiori in segno di lutto davanti alla sede pechinese della grande G. Alla fine si decise per il trasferimento del motore di ricerca dalla Cina a Hong Kong. E pochi mesi dopo al colosso americano fu anche rinnovata la licenza per operare al di qua della Grande Muraglia. Una soluzione che alla fine permise a tutti di non perdere la reputazione. E soltanto chi conosce il Paese di Mezzo sa quanto il ‘mianzi’, la faccia, sia importante per i cinesi. Larry Page, Sergey Brin e il direttore esecutivo, Eric Schimdt poterono sottrarsi alla censura senza abbandonare completamente il mercato cinese. Mentre il governo mandò un segnale alle aziende occidentali: qui da noi si devono rispettare le nostre leggi. Una soluzione salomonica consigliata da Pechino, rivelò in seguito Schimdt.
La Cina forse non sarà più il ‘competitore strategico” dell’era Bush, ma la diffidenza rimane. E negli Usa è esplosa nella campagna per le elezioni di metà mandato. Candidati repubblicani e democratici si accusano a vicenda di “collusione con il nemico”. Nella corsa per il seggio della Pennsylvania al Senato, Joe Sestak punta il dito contro il rivale repubblicano, Pat Toomey, reo di “creare posti di lavoro in Cina”. A parti inverse, nella West Virginia, è il candidato del GOP, Spike Maynard,ad accusare il democratico Nick Rahall di sostenere l’industria dell’energia alternativa cinese. Paure riassunte da uno spot dei ‘Cittadini contro gli sprechi del governo’. Nel video, ambientato in un’aula universitaria di Pechino nel 2003, un insegnante chiede agli studenti perché sono crollati l’impero romano, quello britannico e poi infine gli Stati Uniti. “Semplice, hanno rinunciato ai loro principi”, è la risposta finale. Certo c’è anche chi vede la Cina come una salvezza. È il caso di Kenneth Smith, sovraintendente scolastico di Millinocket, cittadina di cinquemila anime oltre 300 chilometri a nord di Portland. Di fronte al calo delle iscrizioni e delle entrate economiche, Smith punta tutto su un bizzarro espediente: attirare giovani studenti cinesi. Per questo ha passato una settimana in viaggio tra Pechino, Shanghai e altre due tra le principali città cinesi, dove ha incontrato funzionari scolastici, genitori e studenti; ha assunto una consulente per approfondire i contatti in Cina e ha chiesto a politici e imprenditori di sostenere il progetto.
Forse in pochi tra i cinesi che sceglieranno di studiare nel Maine conosceranno il volto di Liu Xiaobo. Capelli corti, grandi occhiali sul naso, il viso del premio Nobel per la Pace è ormai diventato noto in Occidente e viene issato in tutte le manifestazioni che chiedono il rispetto dei diritti umani nel Paese di Mezzo. Un nuovo punto di frizione tra gli Stati Uniti, che ne chiedono il rilascio, e Pechino che considera il dissidente un criminale e lo ha condannato a 11 anni di carcere per sovversione. La sua colpa: essere tra i firmatari di ‘Charta 08’, un documento per chiedere al Partito comunista riforme democratiche. Le stesse di cui ha parlato in un’intervista alla ‘CNN’ il primo ministro Wen Jiabao, poi censurato in patria, mentre il Pcc si apprestava a scegliere l’uomo che dovrà guidare il Paese nei prossimi dieci anni. Nell’anno in cui la medaglia con il profilo di Alfred Nobel ha segnato l’asse Washington-Pechino, il volto più significativo è proprio quello di ‘ Nonno Wen’, com’è chiamato il premier per la sua vicinanza alla popolazione nei momenti di terremoti e inondazioni. È sua la copertina del numero di ottobre del ‘Time’ in versione asiatica. Non è una novità per i leader cinesi. Prima di lui già Chiang Kai-Shek, Mao Zedong, Zhou Enlai e Deng Xiaoping si erano guadagnati più volte l’attenzione della rivista americana. Diversa è la reazione della stampa cinese. Come scrive il settimanale ‘Nanfang Zhoumo’, se prima i politici cinesi erano additati come ‘pazzi’ e ‘giganti affamati’, oggi “si dà risalto all’apertura e alle riforme”.
[Pubblicato da Loop]