Cinastan – Riflessioni sull’approccio cinese nei confronti dell’azione militare russa in Ucraina

In Cinastan by Redazione

L’azione militare intrapresa dalla Russia nel Donbass ha suscitato diverse reazioni da parte della comunità internazionale. Perché la Cina ha finora mantenuto una certa cautela nell’esporsi in opposizione o in supporto di Mosca? C’è qualche connessione tra il conflitto nelle repubbliche secessioniste di Donetsk e Luhansk e la questione taiwanese?

Cina, Russia e Ucraina: lezioni dal 2014

La reazione cinese all’azione militare intrapresa dalla Russia nel Donbass è stata finora caratterizzata da un certo grado di cautela. Pechino ha infatti scelto di non identificarsi né come un paese completamente contro né come completamente a sostegno della campagna interventista di Mosca. A districarsi tra le espressioni – volutamente vaghe[1]utilizzate dallo stesso Ministro Wang Yi e da alcuni portavoce del Ministero degli esteri cinese emergono due tematiche centrali che permettono di gettare luce sulle motivazioni che hanno portato Pechino a scegliere la stessa strada che era andata a caratterizzare il suo approccio al tempo dell’annessione russa della Crimea nel 2014.

Il primo tema è senz’altro quello dell’unità territoriale. Un aspetto fondamentale da tenere in considerazione quando si esamina l’approccio cinese alla situazione nel Donbass riguarda la presenza di un certo numero di regioni all’interno della Repubblica popolare che perseguono obiettivi di secessionismo. Si tratta, in primis, del Xinjiang nel nord-ovest del paese, del Tibet e della Mongolia interna. Un supporto diretto al riconoscimento e all’azione militare intrapresa dalla Russia nelle repubbliche di Donetsk e Luhansk e alla loro causa secessionista, pertanto, andrebbe a mettere Pechino in una posizione difficile a livello interno, rischiando di movimentare questioni di sicurezza domestica.

La seconda tematica si lega invece al tipo di relazione che la Cina ha sviluppato con la Russia e alla scelta di sostenere, anche in una situazione altamente precaria per Pechino come quella attuale, il consolidato “fronte comune” con Mosca all’interno del sistema internazionale. Sono infatti gli sforzi degli Stati Uniti e della NATO – volti all’inclusione di Kiev nell’organizzazione – ad essere identificati dalla Cina come ostili poiché altamente lesivi per il mantenimento dello status quo. Ma questa retorica non deve essere scambiata per un genuino sostegno cinese all’azione militare della Russia in Ucraina. Al contrario, già nel 2014, la Cina si era mostrata contraria all’interventismo di Mosca in Crimea perché temeva che l’annessione sarebbe andata a creare un precedente rischioso per le sue “regioni instabili”. Anche allora, come oggi, Pechino aveva tuttavia scelto di non tradurre il proprio scontento in azioni punitive contro Mosca, soprattutto in contesti multilaterali, come l’ONU, che includono anche gli Stati uniti. 

Taiwan non è il Donbass

Diversi osservatori hanno visto nell’invasione russa dell’Ucraina un possibile modello per la Cina nella sua relazione con l’isola di Taiwan. Ma la questione taiwanese e quella delle repubbliche del Donbass sono molto diverse e difficilmente assimilabili l’una all’altra.

Donetsk e Luhansk sono due repubbliche che hanno auto-dichiarato la propria indipendenza da Kiev nel maggio 2014. Per otto anni, la comunità internazionale ha continuato a riconoscerne l’appartenenza al territorio ucraino. Dal 21 febbraio scorso la Russia seguita da Cuba, Venezuela, Nicaragua, Siria e le province georgiane di Abkhazia e Ossezia del sud ne hanno riconosciuto l’indipendenza, ponendo così di fatto fine agli accordi di Minsk che avevano congelato il conflitto nella regione. Al contrario, Taiwan è un’entità politica riconosciuta come stato sovrano soltanto da una manciata di paesi tra cui spicca la Santa Sede.[2]

Ciò che maggiormente differenzia la situazione nel Donbass e l’isola di Taiwan è quindi il fatto che, agli occhi di Pechino, Taiwan rimanga un territorio che non ha mai smesso di fare parte della Repubblica popolare cinese, una vera e propria provincia. Di conseguenza, nella logica di Pechino, un qualsiasi intervento su Taiwan, allo stato attuale delle cose, sarebbe assimilato ad un intervento effettuato entro i confini della stessa Repubblica popolare. L’approccio tradizionalmente scelto da Pechino nei confronti di Taiwan, infatti, denota una preferenza per azioni legate al contesto politico-legislativo dell’isola e che passano attraverso un forte sostegno al partito del Guomindang, più moderato nella propria visione delle relazioni tra Taipei e Pechino rispetto agli esponenti del Partito progressista democratico attualmente in carica. Tra il 2008 e il 2016, la presidenza di Ma Ying-jeou del Guomindang – primo leader a incontrare un presidente della Repubblica popolare dai tempi della fine della guerra civile del 1949 – aveva infatti dato segni di voler aprire l’isola ad una maggiore integrazione economica con Pechino.

 

[1] Una nebulosità resa necessaria anche dal forte peso dato dalla Cina al summit tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo russo Vladimir Putin a ridosso della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici invernali appena conclusisi.

[2] I paesi che riconoscono la sovranità di Taiwan sono Santa Sede, Guatemala, Honduras, Haiti, Paraguay, Eswatini, Tuvalu, Nauru, Saint Vincent e Grenadine, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Belize, isole Marshall e Palau.

 

Di Giulia Sciorati

(Università di Trento e ISPI)