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Cina, il pericolo è un popolo disilluso

In Uncategorized by Simone Pieranni

Aumentano le spese sanitarie, quelle per l’educazione, ma diminuisce la sensazione di poter programmare il proprio futuro. Ed è questo che può mettere in difficoltà sia l’economia cinese, sia la sua guida politica

Nel 2001 è uscito un libro dal titolo “The Coming Collapse of China”. L’autore, Gordon G. Chang, avvocato ed editorialista tra gli altri di New York Times e Wall Street Journal, sosteneva che la Cina sarebbe crollata entro il 2011. Le cause: deflazione, economia dopata dai sussidi statali, corruzione del Partito comunista. Tutte motivazioni che possono essere riscontrate anche nella Cina di oggi, in quella del 2023, non fosse per il fatto che ancora il colosso asiatico non è crollato. A questo proposito ci sono tre ordini di discorso.

Il primo è che il crollo della Cina è stato sempre e per lo più auspicato da economisti e politici americani (senza troppe distinzioni tra conservatori e progressisti) per un motivo molto semplice: per tanti analisti occidentali un paese inserito nel mercato globale – e anzi motore della globalizzazione – non può avere un futuro se è guidato da un partito unico, all’interno di una cornice politica autoritaria. Questo discorso risente molto del clima degli anni ’90, quello nel quale si respirava l’illusione che la Cina di Deng, pronta a entrare nel Wto sotto la guida dell’esecutore del “piccolo timoniere”, Jiang Zemin, sarebbe diventata una democrazia. Una cosa che né Deng né Jiang avevano mai promesso, né in casa né all’estero.

In più auspicare o, concedendo il beneficio del dubbio, ritenere che la Cina fosse sull’orlo del tracollo nel 2001 significava prevedere per lo più un disastro politico per il Partito comunista: l’economia cinese non era ancora un traino mondiale, una sua rovinosa caduta sarebbe stata per lo più terribile solo per i cinesi (e per i funzionari del Pcc). Oggi non è più così, dunque bisognerebbe non scherzare con il fuoco: sarebbe necessario accettare che oggi la Cina è un interlocutore economico e diplomatico mondiale, e che una crisi lì equivarrebbe a una crisi su scala mondiale nonostante sia in corso un disaccoppiamento nel settore tech tra Pechino e Washington.

E questo ci porta al secondo punto: i dubbi sulla tenuta cinese sono sempre gli stessi da tempo. Gordon citava la deflazione (che si era manifestata in Cina proprio sul finire degli anni ’90) e che oggi sembra tornare, i sussidi statali che oggi potremmo tradurre nello sviluppo economico che fa leva per un terzo del suo Pil sul settore immobiliare cresciuto a dismisura a debito (e periodicamente ecco i cadaveri di società immobiliari e banche ombra spuntare sulla superficie del fiume) e la corruzione del Partito che, a quanto pare, nonostante l’ampia campagna iniziata da Xi fin dal 2013 è ancora un problema (vedi le ultime purghe nel settore più lucroso dell’esercito, quello dei missili nucleari). Dato che i problemi sono sempre gli stessi e che il Pcc ogni volta sembra mettere una pezza alla crisi del momento, bisogna concentrarsi su un terzo aspetto: che cosa c’è di diverso oggi e perché questa odierna traballante situazione economica cinese potrebbe essere più pericolosa o meno che in passato. E questo aspetto si incrocia con un soggetto che spesso nelle analisi (tutte geopolitiche o finanziarie) si dimentica: il popolo cinese.

Nel 2001, così come nel 2011, i cinesi erano spinti dalla crescita e da quello che alla fine consente all’economia di andare bene: erano fiduciosi nel futuro. Certo, per chi non andava bene la dura linea del Pcc era inflessibile, ma la stragrande maggioranza della popolazione cinese ha migliorato la propria vita, le proprie condizioni. E così è stato fino a qualche periodo pre Covid. Dopo, per il popolo cinese, è cominciato un periodo strano: il Covid ha abbattuto l’ottimismo, ha instillato il dubbio che forse non tutto sarebbe stato come prima. E così un popolo risparmiatore di suo ha aumentato questa propensione e oggi è chiaro a tutti: i cinesi non spendono in beni per il futuro (come una casa) ma per l’oggi, per l’ora. Aumentano le spese sanitarie, quelle per l’educazione, ma diminuisce la sensazione di poter programmare il proprio futuro. Ed è questo che può mettere in difficoltà sia l’economia cinese, sia la sua guida politica, cioè il Partito comunista. Quel Partito che sulla fiducia nel futuro, sul senso di benessere perenne, infinito, ha giocato tutte le sue carte per assicurarsi leadership e stabilità sociale.

Di Simone Pieranni

[Pubblicato su Il Manifesto]