Biden “arruola” l’Asia? E Xi va in Sudafrica puntando al sud globale

In Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

La Cina risponde al summit di Camp David tra Usa, Giappone e Corea del sud. Lunedì Xi Jinping in Africa per il summit dei Brics. E intanto lancia nuove esercitazioni militari sullo Stretto di Taiwan, in risposta al transito americano del vicepresidente Lai

Joe Biden prova ad arruolare il premier giapponese Fumio Kishida e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol a Camp David, Xi Jinping si prepara al summit dei Brics in Sudafrica, dove andrà di persona per rivendicare la guida del cosiddetto “sud globale”. Botta e risposta indiretto tra Stati uniti e Cina, impegnate a serrare i ranghi in una competizione strategica che si fa sempre più intensa. Non era scontata la presenza fisica del presidente cinese in Sudafrica, vista l’assenza di Vladimir Putin. E invece Xi effettuerà il suo secondo viaggio all’estero del 2023 dopo quello a Mosca, con l’intenzione di presentare la Cina come potenza responsabile e garante di stabilità. Al vertice, d’altronde, non ci saranno solo i paesi del gruppo. Sono infatti stati invitati in totale 69 paesi, tra cui tutti quelli africani, e si prevede che l’espansione sia una delle priorità dell’agenda. Algeria, Arabia saudita, Argentina ed Etiopia hanno mostrato interesse ad aderire al gruppo in modo formale o informale. In quella sede, Xi potrebbe chiedere conto al presidente brasiliano Lula della calorosa stretta di mano col vicepresidente taiwanese Lai Ching-te, incrociato in Paraguay alla cerimonia d’insediamento di Santiago Peña.

Il fine settimana che precede l’evento diplomatico è però denso di aspetti militari. Ieri mattina, il comando orientale dell’Esercito popolare di liberazione ha annunciato l’avvio di nuove esercitazioni militari intorno a Taiwan. Si tratta proprio dell’attesa reazione a doppio transito negli Stati uniti di Lai, che è anche e soprattutto il candidato più ostile a Pechino alle presidenziali di gennaio 2024. Un “piantagrane secessionista”, scrivono i media cinesi, che lo descrivono come un rivale più radicale dell’attuale presidente Tsai Ing-wen a causa di alcune sue passate esternazioni in cui affermava di voler perseguire un’indipendenza formale di Taiwan. Posizione più estrema, seppur smussata di recente, rispetto alla salvaguardia dell’indipendenza de facto di Taipei entro però la cornice della Repubblica di Cina.

Non sono state fornite indicazioni precise sulla durata delle manovre, né sulla loro estensione, che appare però molto ridotte rispetto a quelle successive alla visita di Nancy Pelosi o all’incontro fra Tsai e Kevin McCarthy in California. In poche ore sono stati comunque osservati 42 jet, 26 dei quali oltre la linea mediana sullo Stretto. “Un serio avvertimento” contro le “forze separatiste di Taiwan” e alle “collusioni con forze esterne”, dice l’esercito cinese. “Un tentativo di condizionare le nostre elezioni”, ribatte il Partito progressista democratico di Taipei. In realtà, in passato le azioni muscolari di Pechino hanno sempre favorito le forze politiche a lei più invise. D’altronde il viaggio di Lai ha avuto un basso profilo, soprattutto a New York e San Francisco. Una reazione troppo forte potrebbe in futuro disincentivare la tendenza al compromesso.

Il giorno prima, un drappello di navi cinesi ha invece svolto un pattugliamento congiunto con navi russe al largo delle isole giapponesi di Okinawa e Miyako. È la prima volta che accade. Il transito è avvenuto in acque internazionali ma ha comunque un valore strategico. Okinawa ospita la maggior parte delle basi militari statunitensi presenti in Giappone e si trova in prossimità di Taiwan. Un messaggio a Tokyo in corrispondenza del summit di Camp David. Con la Corea del sud si resta invece sul piano retorico. Più volte ufficiali e media cinesi hanno indicato a Seul che un allineamento con Tokyo e Washington, con una “giapponesizzazione” della sua politica estera, rischia di provocare danni alla sua sicurezza nazionale. Il riferimento è alla Corea del nord, ma anche alla ridotta disponibilità di Pechino stessa a vestire i panni di mediatore con Kim Jong-un. Sullo sfondo, un’azione diplomatica volta a far pesare i rischi di un confronto che in Asia in realtà nessuno vuole.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]