Nonostante 14 anni di divieto alle console occidentali, la Cina ha oltre 336 milioni di giocatori online. Il profilo tipico di un giocatore cinese è quello di un giovane di sesso maschile, di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Target perfetto, secondo i media locali «per i giochi rossi». Una panoramica dei giochi sviluppati in collaborazione con l’Elp.
Si narra che alcuni cinesi abbiano fatto richiesta di entrare nell’Esercito solo per poter giocare a Glorious Mission, creato dalla società Giant Interactive Group (Gig) e sviluppato in collaborazione con il Comando dell’Area Militare di Nanjing dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese. Quando si cominciò a parlare del gioco, sul sito ufficiale si diceva che «si tratta di uno sparatutto in prima persona e i giocatori possono prendere parte a missioni individuali o di gruppo. Il gioco, che dispone della armi dell’esercito cinese e di scenari di battaglia realistici, è stato completato in 32 mesi».
All’epoca era riservato ai soldati, anche se un anonimo ufficiale dell’esercito ammise che «il gioco potrebbe presto essere disponibile per gli appassionati di cose militari»; e infatti è diventato pubblico e qualcuno ha potuto dunque sfogare la propria voglia di guerra contro i giapponesi, potendo utilizzare anche armamentari atomici: nulla è lasciato al caso.
E Glorious Mission ha da poco rilasciato un update, ovvero un nuovo ambiente di gioco, che raffigura le le isole Diaoyu (Senkaku in giapponese), gli isolotti disabitati e contesi tra Pechino e Tokyo. Come recita il claim in cinese: «Entra nel gioco e combatti al fianco delle forze armate cinesi: utilizza le loro armi per dire ai giapponesi di restituirci i territori che hanno rubato!»
La Cina ha oltre 336 milioni di giocatori online (dato che ha cominciato ad essere registrato dal 2012). Il profilo tipico di un giocatore cinese, ha scritto il Global Times, quotidiano in inglese del Partito Comunista «è quello di un giovane di sesso maschile, di età compresa tra i 18 e i 30 anni». Target perfetto, aggiungono, «per i giochi rossi», ovvero quelli patriottici, che non dovrebbero corrompere lo spirito cinese, ma anzi investirlo di un sano, si fa per dire, nazionalismo.
La Cina però è anche un mercato, che non è esente da spinte commerciali che arrivano dall’Occidente: dato il grande numero dei giocatori potenziali, le aziende che producono le console per giocare, sono riuscite nel loro intento, ovvero aprire il mercato cinese, che dal 2000 vietava le piattaforme straniere per giocare.
Dopo quattordici anni quindi anche in Cina, Playstation, Xbox e affini potranno essere acquistate, anche se solo a Shanghai, nella zona di libero scambio. Si tratta della fine di due paradossi: innanzitutto il fatto che le console sono prodotte quasi tutte in Cina, ma non potevano essere vendute ai cinesi, in secondo luogo si porta alla luce un mercato che fino a questo momento era prevalentemente in nero, perché i cinesi che potevano permetterselo, le console le compravano eccome. A Hong Kong.
La fine del divieto alle console
Nel 2012 l’azienda cinese Lenovo aveva provato ad approfittare del divieto di vendita delle console di gioco straniere, producendone una propria. Si chiamava Ebox ed era stata prodotta da Edoo, sussidiaria del gigante della tecnologia. Il prodotto era stato messo sul mercato a 600 euro, ma non è mai decollato. All’epoca non furono poche le recensioni entusiastiche dell’idea Lenovo: «In Cina questo prodotto è il primo del suo genere, una console di gioco venduta attraverso i canali ufficiali», aveva detto Sun Mengzi, analista di gioco Analysys International al Financial Times. «E’ difficile dire quanto successo avrà, aveva detto all’epoca, ma almeno servirà a testare il mercato».
Il prodotto Lenovo era dotato di telecamere motion-sensing ed era venduto con annessi giochi di fitness, kung fu e altri games per la famiglia. «La politica nazionale vieta la vendita di console di gioco, la nostra potremmo definirla come una macchina sportiva», aveva spiegato Jack Luo, amministratore delegato di Eedoo. «Noi non la definiamo una console di gioco, aveva aggiunto, non ci sono giochi di combattimento crudeli e sanguinari, comuni invece in una console di gioco normale».
All’epoca un sondaggio su su Sina Weibo, il Twitter nazionale, sosteneva che solo il 6 percento degli intervistati aveva intenzione di comprare la console Lenovo. Su questo i cinesi sono poco patriottici: sanno bene che l’innovazione in termini di giochi e tecnologia, arriva dall’occidente. E infatti una società di ricerche di mercato (la Niko Partners) ha prodotto un report secondo il quale un milione di console sarebbero vendute illegalmente ogni anno in Cina, con un picco di 1,7 milioni quando la PlayStation 3, Nintendo Wii e Xbox 360 rilasciarono i loro nuovi modelli.
E ora a Shanghai via libera, anche se molti analisti fanno notare come il Consiglio di Stato cinese abbia specificato che la sospensione del divieto è «temporanea» e che le console saranno soggette «all’esame dei contenuti da parte dei servizi culturali del Partito». Si calcola che l’apertura ai brand occidentali, potrebbe dare vita ad un mercato «promettente» come hanno sostenuto gli analisti di Sony. Un piatto decisamente ricco se si considera che il divieto ha consentito l’esaltazione dei giochi on line, che nel 2012 hanno prodotto un giro d’affari di circa 14 miliardi di euro.
Red games
L’ultima crociata contro la «corruzione spirituale» occidentale era stata lanciata da Hu Jintao, l’ex presidente cinese. Il governo diretto allora da Wen Jiabao, diede il via alla cosiddetta «riforma culturale», nella quale si invitata tutta la produzione culturale locale a ribadire concetti «cinesi», senza farsi corrompere dai «valori occidentali». Il divieto alle console, però, ha finito per creare il fenomeno di un mercato gigantesco, quello dei giochi on line.
«Alla fine degli anni 90, ha scritto il Telegraph, quando i giochi single-player stavano per perdere il loro seguito e vennero sfidati dai videogiochi online, lo sviluppatore di giochi cinese Xishanju aveva già compreso che ci sarebbe stato un mercato per i giochi rossi a causa di un diffuso sentimento anti-giapponese».
Sentimento che permea la produzione dell’intrattenimento made in China: basti pensare che secondo una ricerca, sui set delle fiction nazionali cinesi, ambientati quasi tutte durante la guerra di liberazione dal Giappone, sarebbero «state uccise» un milione di comparse che rappresentavano giapponesi.
Nel 1997 la società Xishanju rilasciò un gioco intitolato War Resistance: Landmine Warfare (divenuto anche uno script cinematografico); si tratta di un gioco ambientato nel 1942 nella provincia del Zhejiang, nel quale il giocatore assume il ruolo di un membro dell’ottava armata della Cina per tentare di strappare Pingyang al controllo dei soldati giapponesi.
Nel 2003 fu poi il turno dello studio Acso di Shanghai rilasciare un videogioco intitolato War Resistance: Blood War in Shanghai, nel quale «i giocatori possono sparare ai soldati giapponesi su tutta la strada che va dal Bund all’ambasciata giapponese durante la guerra anti-giapponese».
Secondo quanto rilasciato da Tang Yongjian, responsabile delle pubbliche relazioni di Perfect World, uno sviluppatore di giochi online, all’inizio della loro epopea, «i giochi rossi non erano in grado di competere sul mercato per lungo tempo. Senza la sponsorizzazione da parte del governo, molti di questi giochi non potrebbero competere con altri giochi popolari».
D’altronde alcuni di questi giochi rossi non costituiscono proprio l’ideale per i giocatori cinesi. Sempre nel 2003, ad esempio, la Shanghai Shengda ha dato vita ad un on line game intitolato Imparare da Lei Feng, esempio supremo in Cina dello stakanovismo nazionale, icona dell’altruismo e della modestia.
Il gioco è stato sponsorizzato dalla Lega della Gioventù Comunista di Shanghai e – come si legge sulla scheda – «invece di armi o denaro, i giocatori sono dotati di citazioni di Mao Zedong. Quando i giocatori completano le loro missioni, che includono aiutare le persone a comprare i biglietti del treno e accompagnare le persone alle loro case durante i temporali, sono accolti dal presidente Mao in piazza Tiananmen».
Per i giovani cinesi di oggi, tutto questo però decisamente meno intrigante che fare la guerra a colpi di bombe e bombardieri ai giapponesi, magari utilizzando una console «occidentale».
[Scritto per il manifesto; foto credits: chinadaily.com.cn]