Cina e Asia. La strategia “delle bacchette” di Li

In by Gabriele Battaglia

Risolvete in fretta i problemi senza danneggiare l’Asia. Sembra questo il sunto del discorso fatto ieri dal premier Li Keqiang al Segretario di Stato Usa John Kerry. Rischio default di Washington o meno, l’offensiva diplomatica di Pechino per l’egemonia economica e politica in Asia è partita. “Chi ha avuto a che fare con le bacchette capisce al volo che una sola non riuscirà mai a mettere il cibo in bocca. C’è n’è bisogno di due. E quando le bacchette sono legate insieme in un fascio, è più difficile che si rompano”.
Con questa metafora pan-asiatica, il premier cinese Li Keqiang ha lanciato ieri la proposta di costituire entro due anni la Comprehensive Economic Partnership (Rcep), un’enorme area di libero scambio, pan-asiatica anch’essa.

L’ha fatto in ben due diversi discorsi a Bandar Seri Begawan – la capitale Sultanato del Brunei – dove sono in corso i vertici dell’Association of Southeast Asian Nations (Asean) e l’East Asia Summit.

Gli analisti sono concordi nel ritenere che sia la proposta sia la metafora marginalizzano implicitamente gli Usa, dove infatti si mangia con coltello e forchetta. Ne prende atto John Kerry, in Brunei a sostituire un Barack Obama trattenuto in patria dal rischio default dovuto al mancato accordo tra democratici e repubblicani sul bilancio federale.
A lui, un risoluto Li ha dedicato un tête-à-tête separato in cui ha espresso le preoccupazioni cinesi sul tiro alla fune in corso a Washington. L’inadempienza degli Usa sul proprio debito, oltre a destabilizzare l’economia globale, provocherebbe infatti notevoli danni anche alla Cina, che detiene buona parte dei bond del Tesoro statunitense.
Insomma: “Risolvete in fretta i vostri problemi, senza fare troppi danni in Asia”.

Ai vicini e meno vicini del continente, la Cina propone invece un’integrazione economica basata sui principi di apertura, partecipazione e trasparenza da realizzarsi entro il 2015 – riportano i media – e che potrebbe a sua volta “integrarsi” con la Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio promosso dagli Usa, che esclude invece Pechino.
È un’offensiva diplomatica, quella Cinese, che può rivelare al tempo stesso grande forza e grande debolezza. Da un lato la consapevolezza di essere ormai un grande player globale e la prima economia regionale, il classico “oste” senza il quale è impossibile fare i conti; dall’altro i problemi territoriali irrisolti con molti dei Paesi asiatici con cui si vorrebbe creare l’area di libero scambio e la necessità di fare in fretta per non essere tagliati fuori da una futura Tpp.

Li ha detto che Cina e nazioni d’Oriente devono applicarsi per migliorare la fiducia reciproca e l’unità ma, nel segno della tradizionale posizione diplomatica cinese, è rimasto cauto sull’ipotesi che un nuovo organismo “sovranazionale” possa interferire negli affari interni di altri Paesi, riporta il South China Morning Post.
L’impressione è che la Cina cerchi di percorrere un doppio binario: sul piano economico, un’integrazione sempre maggiore; su quello politico, la cosueta linea delle relazioni bilaterali tra singoli Paesi.

A questo punto, la palla passa ai futuri (e ipotetici) partner asiatici, in primis il Giappone. La faccenda è delicata anche per Tokyo, indecisa tra il ricovero sotto l’abituale ombrello Usa – che però sembra sempre più bucherellato – e la navigazione nel mare magnum della futura integrazione pan-asiatica, dove inevitabilmente Pechino giocherebbe il ruolo del primus inter pares.
Cina e Giappone sono impegnati ormai da tempo in uno scontro diplomatico sulle isole Senkaku/Diaoyu, nel Mar Cinese Orientale. A Tokyo temono che la ritirata di Washington sulla questione siriana e la rinuncia di Obama al tour asiatico rivelino la fine del mondo disegnato da un’unica superpotenza globale, per altro amica. Ed è quindi il caso di cominciare a guardarsi attorno. Inoltre, perché rischiare di essere esclusi dai benefici economici della futura “comunità economica” asiatica? Ma è il caso di fidarsi?
Secondo Jin Canrong, studioso di relazioni internazionali dell’Università del Popolo di Pechino, il Giappone potrebbe inoltre non essere disposto ad aprire completamente le proprie industrie al libero commercio.

Ma le dispute territoriali della Cina riguardano anche il Mar Cinese Meridionale, dove sono aperti contenziosi con Brunei, Malesia, Filippine e Vietnam.
Per superare lo stallo, Li Keqiang ha ribadito il desiderio di Pechino di risolvere le questioni aperte “attraverso il dialogo bilaterale” e ha chiamato le nazioni del Sudest Asiatico a “comprensione e rispetto reciproco”. I dieci membri dell’Asean hanno da parte loro ribadito mercoledì l’intenzione di intensificare le consultazioni ufficiali con la Cina per la creazione di un Codice di Condotta (CoC) nelle acque contestate. Come si vede, da un lato si punta ai rapporti uno-a-uno, dall’altro si cerca di fare gruppo per trattare con il gigante della porta accanto.
Tuttavia le consultazioni formali sul Coc tra Cina e Asean – presa nel suo insieme – sono già in corso da tempo ed esiste un gruppo di lavoro congiunto che si è riunito l’ultima volta il mese scorso, proprio in Cina, a Suzhou.

Incontri fitti, sottigliezze diplomatiche, aperture economiche, questioni territoriali, Da questo “great game” intricato dipenderà un futuro dell’Asia che graviterà attorno a Washington o a Pechino. Li Keqiang ha lanciato la sfida.

[Scritto per Lettera43; foto credits: voanews.com]