Secondo fonti ufficiali due terzi delle infrastrutture in costruzione in Africa sono finanziate da imprese cinesi, a conferma di una penetrazione economica sempre più profonda.
La Cina e l’Africa non si sono conosciute ieri. La loro è una lunga storia, che risale all’incontro avvenuto sei secoli fa fra l’Ammiraglio Zheng He ed il continente nero. A quel tempo non fu vero amore. La corte imperiale cinese era chiusa su se stessa, e ciò che si trovava al di fuori del Celeste Impero poteva restarci. Da allora i contatti sono stati relativamente sporadici, ma da due decenni a questa parte le cose stanno cambiando. La Cina è pronta per un grande ritorno nel continente. Questa volta senza vele, ma con valigie piene di contanti e progetti industriali.
Il 21 ottobre scorso Xie Yanjing, direttrice dell’Ufficio per l’Asia Occidentale e l’Africa presso il Ministero del Commercio, ha dichiarato che due terzi dei fondi per la costruzione di infrastrutture in Africa provengono dalla Cina. Si tratta di una cifra da record, che definisce una relazione più che occasionale fra i due continenti. La presenza cinese è ora più forte che mai. Stando a quanto affermato dalla South Africa Standard Bank Group Ltd, gli investimenti cinesi in Africa cresceranno fino a 50 miliardi di dollari entro il 2015, mentre i flussi commerciali fra i due paesi dovrebbero arrivare a 300 miliardi.
La strategia cinese consiste innanzitutto nel supporto per la costruzione di infrastrutture in cambio di materie prime. E’ una tattica che funziona, perché molti paesi africani sono ricchi di risorse ma poveri di tutto il resto. Seguendo questa logica, imprese cinesi hanno edificato strade, ferrovie, ospedali.
La Cina si è anche impegnata a creare delle “zone economiche speciali” in Nigeria, Egitto, Etiopia, isole Mauritius e Algeria. Queste consentiranno di importare know-how e di aprire la strada per una possibile industrializzazione. Pechino è forte della propria esperienza in materia: le zone economiche speciali furono la testa d’ariete delle riforme di Deng Xiaoping. Non solo, negli ultimi anni l’influenza economica asiatica si è allungata anche al settore agricolo e a quello bancario (la Industrial and Commercial Bank of China è ora proprietaria del 20% della citata South Africa Standard Bank, la più grande banca africana).
Per paesi poveri e indebitati, questo flusso di denaro presenta dei vantaggi. Costruendo infrastrutture e stimolando l’attività economica la Cina incentiva la crescita. Il commercio con l’Oriente, inoltre, consente alle popolazioni locali di avere accesso a beni di largo consumo a prezzi relativamente convenienti.
Scetticismo e dubbi, ad ogni modo, non mancano. Le aziende cinesi costruiscono ed esportano tecnologia e capitali, ma spesso preferiscono portare da oltreoceano anche la manodopera, andando così a colpire l’occupazione del paese ospite. E anche quando sono i lavoratori locali ad essere chiamati in causa, le condizioni d’impiego sono spesso precarie.
Un altro problema è quello ecologico. Molte delle attività cinesi sono altamente inquinanti, ed è possibile che nei prossimi anni si assista ad un fenomeno di delocalizzazione verso l’Africa di impianti che i cittadini cinesi –sempre più ricchi e meno inclini al compromesso sull’ambiente- non sono più disposti a tollerare nelle loro città.
Infine, ci sono le tensioni politiche. Hillary Clinton ha apertamente criticato quello che il Segretario di Stato americano definisce “neo-colonialismo” cinese in Africa. Nonostante la posizione dell’Occidente non sia la migliore per fare prediche morali sull’argomento, resta il dubbio che la Cina sia venuta non a portare qualcosa di nuovo, ma piuttosto a sostituire gli occidentali nella caccia alle materie prime.
* Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Collabora con Il Caffè Geopolitico, per il quale scrive di politica asiatica.