Chinoiserie – Storia di un’estetica illegittima

In Uncategorized by Redazione

L’interesse europeo per l’oggettistica e l’arredamento cinese nasce a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo, come conseguenza dell’intensificarsi degli scambi commerciali tra Europa ed Asia. L’impiego di mobili e porcellane cinesi nelle case dell’alta società europea divenne una moda che prese il nome di chinoiserie décor. Chinoiserie, la rubrica sull’arte cinese a cura di Camilla Fatticcioni

L’interesse occidentale per l’Oriente è cresciuto congiuntamente all’accesso a nuove culture e all’espansione del commercio in Asia orientale.  Anche se la radice della parola “chinoiserie” è “Chine” (Cina), gli europei del XVII e XVIII secolo non avevano una chiara concezione di come fosse effettivamente la Cina. Spesso definita con termini come “Oriente”, “Estremo Oriente” o “Cina”, la descrizione del continente asiatico era approssimativa, Cina e Asia impiegati come sinonimi e la cultura cinese era quella maggiormente rappresentata. Per questa ragione, a partire dal XVII secolo tra commerci, conflitti e depredazioni e viaggi di europei in Asia, sono pervenuti in Europa numerosi oggetti e artefatti provenienti dal Giappone, dalla Corea e dal Sud-Est Asiatico erroneamente identificati come “cinesi”.

Chinoiserie, storia di una moda illegittima

Con la caduta dell’impero Mongolo nel 1368 d.C., le rotte commerciali terrestri iniziarono il loro lento declino, dando però spazio ai commerci via mare.  Sulle imbarcazioni che facevano la spola tra Europa e Asia si iniziò anche a commerciare molto il tè, prodotto che divenne presto estremamente richiesto e  ricercato dagli europei. Per assicurare le foglie di tè sulle imbarcazioni, queste venivano spesso imballate all’intero di vasi di ceramica. Ed è stato proprio l’arrivo della ceramica a introdurre al mondo europeo un nuovo linguaggio visivo, fatto di paesaggi esotici, di architetture insolite e di persone vestite in modo diverso. Sottile e resistente, la porcellana cinese sembrava fatta di un materiale speciale e non di semplice argilla, quando in realtà il segreto della sua raffinata fattura era il frutto di una tecnica di cottura all’epoca sconosciuta in occidente.

Da qui, i primi tentativi di imitazione della porcellana cinese come quello avvenuto a Firenze nel 1575 per volere del granduca Francesco I de’ Medici (1541-1587). Conosciuta come Porcellana Medici, il tentativo di copiare le preziose ceramiche provenienti dall’Asia ebbe purtroppo di breve durata. La temperatura di cottura elevata per le tecnologie europee del XVI secolo, con conseguenti costi di produzione, fecero sì che la fabbricazione si interrompesse nel 1587 con la morte del granduca di Firenze.

A partire dalla seconda metà del XVII secolo poi, i missionari gesuiti in Asia rivestirono un ruolo importante nella trasmissione in Europa della cultura e della conoscenza della società cinese, e per molti versi sono consideranti i fondatori della sinologia. L’opera del gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) La Chine, illustrée de plusieurs monuments tant sacrés que profanes del 1670 è considerata di estrema importanza come introduzione all’esotico universo delle arti decorative cinesi. L’alone di mistero e fascino che avevano gli oggetti provenienti dall’Asia, insieme ad un maggiore interesse e studio delle culture asiatiche con l’orientalismo comportò l’aumento della richiesta di porcellane, giade e bronzi cinesi in Europa. Avere una stanza “cinese” divenne presto una moda, e molti artisti occidentali si adoperarono ad imitare lo stile orientale nei disegni della carta da parati oppure nel mobilio. Al tempo stesso, crebbe anche la moda dei giardini all’orientale, così come l’imitazione dell’architettura, esempio che possiamo vedere ancora oggi con la grande pagoda dei Kew Gardens di Londra, completata nel 1762 per mano dell’architetto inglese Sir William Chambers (1723- 1796).

Nel XVIII secolo, la domanda di beni e l’ossessione europea per l’Asia creò uno squilibrio commerciale tra Cina ed occidente, risultando, infine, con le Guerre dell’Oppio ed il cosiddetto Secolo dell’Umiliazione (1839-1949).

Le collezioni Illegittime dei musei

Secondo il resconto cinese,  si stima che dal 1840 (inizio del Secolo dell’Umiliazione Nazionale)  siano scomparsi fino a 10 milioni di oggetti antichi. Ad oggi il British Museum di Londra conta all’incirca 23,000 artefatti cinesi nella sua collezione. Molti musei hanno un’eredità che affonda le radici nel colonialismo: le loro collezioni provengono da ricchi donatori che hanno beneficiato degli imperi coloniali, proprio come quella di Sir Hans Sloane (1660-1753), fondatore del British Museum.

La recente morte della Regina Elisabetta ha risvegliato in molti cittadini cinesi sentimenti contrastanti che hanno portato in ballo anche la questione della restituzione dei numerosi artefatti cinesi esposti oggi al British Museum, e non solo.

Nel 2015, lo Château de Fontainebleau, vasta tenuta reale alle porte di Parigi, fu al centro di uno scandalo per il furto di 22 preziosi artefatti cinesi, tra porcellane, bronzi e giade. Nel 2018 un articolo della rivista newyorkese GQ collegò il fatto ad una serie di altri furti avvenuti nei principali musei europei, insinuando che il Governo Cinese fosse l’ acquirente delle reliquie culturali rubate. D’altro canto, la collezione cinese presente a Château de Fontainebleau non vanta certo di avere una bella storia alle spalle: la maggior parte degli artefatti del museo è stata trafugata dai soldati francesi nel 1860, durante il saccheggio dell’antico Palazzo d’Estate di Pechino. L’articolo di GQ magazine accusava dei furti la China Poly Group ed altre élite cinesi recentemente molte attive nel recupero del patrimonio cinese all’estero.

Jiang Yingchun, direttore generale del Poly Culture Group, ha subito dichiarato “insensato” il tentativo della rivista di collegare i furti ai grandi sforzi che la Cina sta mettendo nel recuperare il patrimonio perduto.

I miliardari cinesi e il rimpatrio dei tesori della patria

La China Poly Group si è dedicata molto al progetto di restituzione del patrimonio culturale cinese sparso per il mondo. Figlia del gruppo Poly, la Beijing Poly Auction, è la terza casa d’asta più importante al mondo. In Cina, le case d’asta straniere possono trattare tutto eccetto gli oggetti di antiquariato ed opere cinesi datate prima del 1911. Quindi il commercio di arte tradizionale cinese all’interno del territorio è gran parte monopolio della Poly. Il recupero degli oggetti sottratti durante il secolo di umiliazione è diventato una parte vitale della rinascita cinese sulla scena mondiale. In qualità di potenza globale, la Cina ha cercato di recuperare il beni perduti per rimarginare la ferita ancora aperta del ricordo del secolo dell’umiliazione.

L’apice di quel triste periodo fu il saccheggio del Palazzo d’Estate fuori Pechino nel 1860 da parte delle truppe francesi e britanniche. Il recupero degli oggetti sottratti durante l’attacco è diventato una parte importante di questo processo di riacquisizione. Tra tutti i beni trafugati dal Palazzo d’Estate, il più emblematico è l’insieme delle 12 teste in bronzo degli animali dello zodiaco cinese, a lungo tramandate in Europa di generazione in generazione come bottino di guerra.

Quando alcune di queste teste arrivate sul mercato dell’arte internazionale, sono state immediatamente acquistate da “stimati amici” del Governo, solitamente grandi uomini di affari che hanno poi convertito il loro acquisto in una donazione allo Stato. A oggi, sette delle dodici teste sono tornate in Cina, esposte nei musei di Pechino e dintorni. Questa sembra una strategia ragionevole per un paese che può contare sulle donazioni da parte di oltre 300 miliardari.

Comportandosi da paladina, la Cina si è dimostrata molto attenta al tema della restituzione dei beni culturali trafugati in epoca coloniale, propri e non solo. Ad oggi istituzioni come il British Museum sono al centro di un dibattito che vede necessaria la decolonizzazione dei musei europeo. È quindi giusto riprendersi opere che nell’ultimo secolo sono rimaste esposte nei principali musei d’Europa? Secondo la Cina sì, visto che si tratta di una restituzione più che legittima che è capace di acquistarsi.

Di Camilla Fatticcioni*

**Laureata in lingua Cinese all’università Ca’ Foscari di Venezia, Camilla vive in Cina dal 2016. Nel 2017 inizia un master in Storia dell’Arte alla China Academy of Art di Hanghzou interessandosi di archeologia ed iconografia buddhista cinese medievale. Sinologa ed autrice del blog perquelchenesoio.com, scrive di Asia e Cina specialmente trattando temi legati all’arte e alla cultura. Collabora con diverse riviste tra cui REDSTAR magazine della città di Hangzhou e scrive per il blog di Bridging China Group. Appassionata di fotografia, trasmette la sua innata voglia di raccontare storie ed esperienze attraverso diversi punti di vista.