CF su Micromega: Proletari

In by Simone

Un estratto del reportage di China-Files sul numero di Micromega in edicola

Sono passati più di trent’anni dall’apertura della Cina all’economia di mercato e ci siamo abituati alle notizie che danno lo sviluppo di quel paese in vertiginosa crescita. Ma a quale prezzo? Milioni di lavoratori sono sfruttati e sottopagati, spesso da industrie straniere. Oggi si affaccia una nuova generazione non più disposta a sopportare le condizioni di lavoro dei padri. Micromega, nel numero in uscita oggi, pubblica un reportage dalla Cina in cui si racconta la nuova generazione di lavoratori cinesi. Pubblichiamo un estratto del pezzo.

«Parliamo di lavoratori della generazione degli anni Ottanta. Da molto tempo ormai le aziende assumono per lo più persone sotto i trent’anni, preferibilmente donne: pensano che siano più controllabili e più disposte ad accettare ritmi di lavoro massacranti. Sono queste persone i protagonisti delle ultime lotte in Cina, in un ambito produttivo che sta rapidamente cambiando». L’analisi è quella del China Labour Bulletin, una ong di Hong Kong, il cui fondatore è un mostro sacro: Han Dongfang, avvocato del lavoro per oltre vent’anni, fondò il primo sindacato indipendente (la Federazione autonoma dei lavoratori di Pechino), durante le proteste del 1989. Espulso dalla Cina, nel 1993 ha fondato a Hong Kong il China Labour Bulletin, appena un anno dopo. (…)

Nella primavera del 2010 la Cina ha visto svilupparsi un fenomeno sociale particolare, definito da più parti come storico. Gli scioperi nelle fabbriche del Sud-Est cinese, polmone economico dell’epoca delle Riforme, invece di essere come al solito catalogati come «incidenti di massa», hanno trovato spazio sui quotidiani nazionali per poi essere rilanciati sui media internazionali, alla faccia della censura e con editoriali straordinariamente a favore dei lavoratori. Parallelamente una delle principali fabbriche di prodotti tecnologici, la taiwanese Foxconn, è stata teatro di numerosi episodi di dipendenti morti suicidi. Sotto processo sono così finite molte aziende straniere accusate di sfruttare manodopera in modo non conforme all’armatura legislativa cinese in tema di lavoro.

Gli scioperi, in particolare, costituiscono un ingranaggio all’interno di un processo frutto di anni di cambiamenti e sistematizzazioni nel mondo del lavoro cinese, che ha visto coincidere la sua iperbole mediatica con alcune peculiarità sociali ed economiche che stanno attraversando la vita della Repubblica Popolare. (…)

Parlare di scioperi in Cina significa affrontare l’attuale complessità, politica, economica e sociale del paese. Analizzando l’ondata di proteste della primavera del 2010, si possono scorgere infatti possibili evoluzioni dell’esperimento cinese: da fabbrica del mondo, la Cina da anni ha dato un forte impulso alla ricerca. Insieme alle aziende composte di lavoratori alla catena di montaggio – anche laureati – sottopagati per gestire al meglio la crescita economica, il paese ha silenziosamente tessuto, filo per filo, la propria tela generale volta alla creazione di una classe di ricercatori e manager in grado di gestire al meglio la seconda fase: una produzione di maggiore qualità, che garantisca ai lavoratori un potere d’acquisto tale da rendere gli ingranaggi economici nazionali un sistema quanto più possibile autosufficiente. Come sottolineava sul Time Fareed Zakaria, il brainpower sembra il nuovo timone economico cinese: mentre in Europa e in Occidente i fondi alle università subiscono sempre più tagli, in Cina sono in costante aumento. (…)

Agli scioperi, all’attenzione alla ricerca e allo sviluppo, è necessario aggiungere le traiettorie politiche, andando a inquadrare tutti questi eventi all’interno dell’ambito più specifico del Partito. La nuova generazione di politici cinesi, la quinta, nasce al di fuori del fardello-orgoglio denghiano, non nascondendo il proprio scetticismo riguardo al modello di sviluppo americano. Proprio Xi Jinping, recentemente candidato a sostituire il presidente Hu Jintao dal 2012, ha affermato la necessità di «spingere attivamente la formazione del partito di governo sul modello di studio marxista», chiarendo che se in Cina è tempo di riforme, anche l’Occidente ha qualcosa da modificare nel suo sclerotico appello alla democrazia. Sempre che si voglia dialogare. (…)

A ridosso della riforma d’apertura all’economia di mercato, promossa da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta, il motore cinese aveva a disposizione una schiera di lavoratori migranti, liberati dal ricordo recente della fame e disposti ad abbandonare la campagna per sgobbare nelle fabbriche statali delle città inseguendo il propagandistico «bene del popolo» – i cinesi dicono «servire il popolo», dogma socioculturale ripetuto dal Politburo (attualmente composto da nove membri, che costitucono i veri padroni del paese) fino all’ultimo dei contadini – oggi il giovane operaio di una Foxconn qualsiasi non ha il senso di abnegazione di suo padre: a lui questa società armoniosa del Partito non ha dato nulla. Magari ha fatto l’università, ma per cosa? Per assemblare circuiti dalla mattina alla sera, dividere una stanza in un dormitorio e dover chiedere al datore di lavoro delle ore di straordinario per arrivare a fine mese? (…)

«Se chiedi ai lavoratori quali siano i loro sogni, spesso ottieni le stesse risposte: fare soldi, aprire un’attività in proprio, diventare ricco e fare quello che si vuole». È una ricerca della felicità completamente irrazionale, che si alimenta della speranza di fare il colpo della vita, inseguito spendendo parte della misera paga mensile in scommesse sui cavalli e in biglietti della lotteria, cercando di afferrare quel numero 8, ba in cinese, come ricchezza e abbondanza, che probabilmente nessuno di loro sfiorerà mai. (…)

Il coraggio della nuova generazione. «Si tratta di organizzazioni spontanee», riferisce Geoffrey Crothall, da vent’anni in Cina e membro del China Labour Bulletin, «composte da giovani svegli, che usano i moderni mezzi tecnologici e che capiscono il momento: non a caso in questo periodo di ondata nazionalistica si rivoltano soprattutto quelli che lavorano nelle aziende straniere: il momento è quello giusto». Come specificato si tratta di una nuova generazione, che agisce diversamente dalle precedenti: «La cosa interessante è la battaglia al rialzo: questi non hanno chiesto un misero aumento, hanno sparato alto chiedendo magari il 50 per cento di aumento salariale proprio perché sanno di essere in una nuova fase della vita politica ed economica del paese». (…)

Come è andata a finire. Il braccio di ferro tra manovalanza cinese e dirigenza straniera si è concluso generalmente con ingenti ritocchi salariali: nel mese di giugno, i manifestanti della Honda ricevono un aumento che fa salire il loro stipendio mensile a 1.600 yuan, mentre i dipendenti Foxconn, che avevano incassato a più riprese la solidarietà del popolo di internet per le loro proteste in seguito ai suicidi, ottengono un aumento preliminare del 30 per cento, fino a raggiungere in ottobre un salario complessivo di 2 mila yuan, contro i 900 di appena cinque mesi prima. In generale, la distensione sembrerebbe frutto di un allargamento del portafogli della dirigenza occidentale, ma alla luce di altri eventi contingenti, è difficile pensare che il Partito abbia lasciato gli esiti della trattativa in mano al confronto tra lavoratori e dirigenti.

L’aumento salariale diffuso, che va quindi ad aumentare il potere d’acquisto delle classi medio basse, si inserisce perfettamente nei piani macroeconomici del Comitato centrale del Pcc, che, rivelando i punti fondamentali del nuovo piano quinquennale, ha apertamente parlato di sviluppo inclusivo. Sviluppo inclusivo significa procedere nella modernizzazione dell’apparato produttivo cinese, specializzare sempre di più l’offerta della fabbrica Cina, lasciando ad altri l’onere di fornire al mercato mondiale il variopinto prontuario delle cineserie di bassa qualità, magari delocalizzando la produzione, con l’Occidente pronto sorprendentemente a chiamarle vietnamerie, cambogianerie, bangladescerie, birmanerie o chissà con quale altro neologismo a basso costo. A braccetto con l’incremento della qualità, andrà anche un aumento dei salari e della qualità della vita, traghettando milioni di persone dal proletariato alla nuova borghesia cinese che, con più soldi in tasca, andrà ad assorbire con più facilità la gigantesca produzione nazionale. Cinesi producono e cinesi compreranno, in un graduale svezzamento dalla mammella occidentale che ha allattato la Repubblica Popolare a dollari ed euro per tutto questo apparentemente interminabile boom economico. (…)