Negli anni delle campagne pedagogiche di massa volte a rieducare i controrivoluzionari, in concomitanza con il primo piano quinquennale di ispirazione sovietica, e mentre Mao raccomandava ai compagni della giovane Repubblica Popolare una accelerazione della collettivizzazione agricola, Il romanzo di Cipollino di un certo Gianni Rodari diventa in Cina un best seller.
Ancora pressoché sconosciuto in Italia, nell’Est del mondo – anche in quello più estremo – Rodari è già un autore di culto. Strani scherzi del caso, e dei meccanismi imperscrutabili che governano la trasmissione dei testi letterari. L’epopea dell’eroe Cipollino uscita in Italia nel 1951 per le Edizioni di Cultura Sociale ha subito un immenso successo nei paesi comunisti, e in particolare in Unione Sovietica, dove il racconto di Rodari supera il milione e mezzo di esemplari venduti.
Dalla ‘copia’ russa le avventure di Cipollino e dei suoi compagni ortaggi trasmigrano in Cina, in una riduzione addirittura parziale rispetto all’originale, ma poco importa. Anche nella Repubblica Popolare Rodari diventa un esempio di narratore da assumere a modello, sublime e popolare, alla pari dei grandissimi maestri russi tanto omaggiati dalla critica rivoluzionaria.
La ragione è presto detta: Cipollino, piccolo esemplare di cipolla, è figlio di poveri, per di più vessati dallo strapotere degli ortaggi più ricchi e potenti (come il famigerato cavaliere Pomodoro e il subdolo principe Limone), detentori di un potere aggressivo e senza legge. Toccherà proprio a lui, dopo peripezie d’ogni tipo nel micro mondo di un orto, liberare dal giogo dei ‘padroni’ gli ortaggi più deboli e affranti, così che un ordine nuovo possa finalmente ispirare la pacifica costruzione di una società giusta.
Un plot narrativo che certo non avrebbe fatto saltare sulla sedia né l’allora sconosciuto in Italia Vladimir Propp, né il suo discepolo alla lontana Greimas, tanto era assimilabile – fin troppo – a quella tradizione folclorica già ricca di giovani ed estrosi oppositori alla legge del più forte. Eppure, forse seguendo una scia discontinua rispetto al ‘reietto’ Orwell, attraverso la sapiente arma dell’allegoria Rodari aveva aggiustato il quadro di un’utopia ancora possibile, in cui l’eroe fosse prima di tutto un giovane mosso da un autentico ideale di eguaglianza e di giustizia. Un’utopia positiva, per farla breve, che trova terreno fertilissimo in Unione Sovietica prima e in Cina poi per ragioni che non sarà difficile intuire.
In seguito il comunismo sovietico, in modo più o meno repentino, si allontanerà – com’è noto – dagli orizzonti cinesi. Dopo il «Grande Balzo in Avanti» e l’istituzione delle Comuni popolari, e così dopo la ‘crisi strategica’ istruita da Chruščëv – culminata nella rottura dell’accordo firmato nel 1957 per l’assistenza nucleare -, e il conseguente ritiro dei tecnici sovietici dal territorio cinese, tutto quanto parli anche alla lontana di Urss viene lentamente rimosso, se non addirittura proibito.
Eppure il prode Cipollino, in qualche modo, sopravvive anche alla mutata temperie della Storia, tanto da guadagnare di lì a poco una traduzione in giapponese. Ma c’è di più, la vicenda degli ortaggi oppressi, e del loro leader carismatico, entra a far parte della tradizione orale, mentre l’identificazione di Cipollino con Mao Zedong che guida il popolo verso la liberazione, diviene finalmente esplicita. Una fiaba a buon fine, insomma, tanto che esistono edizioni cinesi recentissime de Il romanzo di Cipollino, a maggior ragione in anni di revival maoista.
La relazione di Gianni Rodari con la Cina non si esaurisce, però, in una mera questione editoriale, tutt’altro. Nel 1972 (anno in cui, tra le altre cose, giunge nelle sale di proiezione italiane ed europee il contestatissimo Chong Kuo, Cina di Michelangelo Antonioni) lo scrittore si ritrova in viaggio nella Repubblica Popolare, dalla quale invierà a «Paese Sera» alcuni reportage dedicati alla scuola, alla sanità, alla vita quotidiana di quella macroscopica utopia conosciuta in Occidente con il nome di Cina.
Circa due anni dopo ne deriverà un volume uscito per l’Editrice Il Rinnovamento, dal titolo emblematico di Turista in Cina, collazione fedele dei suddetti articoli, senza particolari modifiche o dilatazioni, se si esclude l’aggiunta di un’introduzione con valenza, appunto, di ‘poscritto’. «Ciò che della Cina si sa è infinitamente meno di quel che non si sa», un teorema semplice e monolitico (risaputo?) allo stesso tempo, variazione sul tema di quel vasto frasario al quale il viaggiatore in Cina (categoria culturale allora assai frequente ) attinge a piene mani, Rodari compreso.
«Nei libri di scuola, per quel che ho capito dalle spiegazioni dell’interprete, fiabe non ce ne sono. I bambini cinesi parevano farne benissimo a meno. Erano vispi, allegri, simpatici. La loro fantasia pareva potersi esprimere senza riserva nella danza, nei canti, nelle rappresentazioni, tutte di contenuto politico-sociale», così scrive Rodari nel tentativo di cogliere l’essenza di una sorta di grado zero della didattica cinese. Eppure «il presidente Mao, quando compone le sue poesie, si muove con grande libertà nel patrimonio della cultura, della letteratura, delle leggende, dei miti del suo paese. Sono sicuro che questo patrimonio non rimarrà a lungo esiliato dai banchi di scuola, dalla vita della gente».
Ciò nonostante, in visita a un istituto per il Movimento Contadino – lo stesso in cui Mao Zedong nel 1926 istruiva i quadri per esportare la rivoluzione comunista nelle campagne – Rodari fa una scoperta particolare. I canti che scandivano i primi passi della rivoluzione proletaria ricordano da vicino le filastrocche cantate in Occidente dai bambini. Una rivelazione: quel culto della semplicità è garanzia di una profonda continuità tra dottrina politica e popolo.
La scelta di un linguaggio semplice, d’estrazione quasi infantile, è la prova di come lo spirito rivoluzionario – nemmeno troppo in fondo – sia consustanziale al gioco, soprattutto nella componente creativa di quest’ultimo. I soldati della Rivoluzione cantavano e fischiettavano un motivo che tutti bambini del mondo conoscono: «La melodia era quella di una popolarissima canzone, “Frère Jaques”, che si canta anche da noi. La cantano anche i bambini con queste parole “Fra Martino campanaro, dormi tu?”. Sull’aria di “Fra Martino”, dunque, nel lontano 1926, alla vigilia dell’insurrezione di Canton, i giovani allievi del giovane Mao Tse Tung cantavano le prime parole d’ordine della rivoluzione».
Se questo è vero, dunque, la Cina appare a Rodari come una gigantesca scuola «per settecento milioni di scolari». Non un formicaio – o una clinica – come aveva scritto altri celebri elzeviristi di viaggio prima di lui, bensì un istituto comprensivo grande quanto una nazione in cui un intero popolo andava ad alfabetizzarsi a partire da quella nuova lingua che era la rivoluzione, al cospetto del Maestro Mao.
Con una particolare distinzione, tuttavia: non la persona fisica di Mao, bensì il suo pensiero, la teoria che egli ha elaborato negli anni, patrimonio ormai della cultura cinese allo stesso modo di quelle fiabe che sembrano non trovare udienza presso le giovanissime generazioni in età scolastica: «Scoprire la differenza tra le due entità non è una finezza bizantina, ma una delle più curiose esperienze che il visitatore possa vivere nella Cina d’oggi».
La dottrina maoista è dunque lo schema al quale rifarsi per definire la misura – e la forma – della propria identità. Così la scuola cinese è la scuola dei rivoluzionari del domani, il luogo eletto in cui si preparano i bambini a far convivere nelle loro vite di adulti la fantasia dell’ingegno e il rigore della dottrina, lo spirito creativo – che contraddistingue una società al suo massimo grado di splendore – e la severa disciplina morale.
Nel rileggere alcune pagine di Turista in Cina di Gianni Rodari, viene da domandarsi cosa mai sopravviva oggi dei giovani cinesi di allora cresciuti sfogliando le pagine del suo Cipollino. Forse poco, forse quasi niente. Da tempo la Repubblica Popolare ha smesso di essere una «grande scuola», e così la pedagogia rivoluzionaria non riesce più a rappresentare le inquietudini nuove che scandiscono la quotidianità cinese. ‘Figli per la rivoluzione‘, si diceva un tempo, ma le rivoluzioni possono essere tante e irriducibili tra loro.
Lo stesso Rodari durante il suo tour cinese ha avuto il merito di vergare in tal senso una solenne visione, che oggi ha il sapore della profezia: «I risultati finali della ‘rivoluzione nell’educazione’ in Cina potranno essere non meno grandiosi di quelli cui porterà l’industrializzazione di un paese che possiede un ‘capitale umano’ di proporzioni gigantesche». Allievi della rivoluzione vs. Capitale umano: questa forse la sintesi dialettica dei primi sessantacinque anni di quella (ex) utopia per comodità chiamata Repubblica Popolare Cinese.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.